La forza di una donna: l’8 marzo quotidiano

Davanti alla forza di una donna non c’è uomo, giudice o legge che tenga.

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È l’8 marzo, quindi: auguri a tutte voi! Se fossi Roberto Benigni, esploderei in un monologo romantico e delirante sulla bellezza della donna, dell’amore, della Beatrice «sovra candido vel cinta d’uliva» e via così. Sfortunatamente, però, sono uno studente di Giurisprudenza, quindi mi cimenterò in un excursus sulla sentenza costituzionale n°. 179 del 15 luglio 1976. Seriamente.

Prima, però, forse è meglio che spieghi il perché di questa strana idea.

Ogni anno, in questo giorno, una frase domina su tutte in ogni conversazione, ogni social network, ogni televisione, ogni giornale, ogni piazza: l’8 marzo dovrebbe essere tutti i giorni. Ed è vero!

Ogni giorno bisogna celebrare le conquiste che sono state fatte nel corso della storia dalle tante donne che hanno lottato contro ogni forma di discriminazione sociale, politica ed economica. Non basta pretendere il rispetto da parte degli uomini, non servono – o meglio, non dovrebbero servire – le quote rosa e non fingiamo che basti un mazzo di mimose. Allora, anche un po’ per ricordarlo a quelle ragazze che oggi sembrano accontentarsi dei risultati conseguiti dalle loro mamme (e dalle loro nonne), perdendo di vista il fatto che non solo la totale parità è ben lungi dall’esser stata conseguita, ma che l’obiettivo diventa sempre più lontano in questo particolare momento storico, voglio raccontare questa storia.

Non si tratta di una favola, ma di una delicatissima questione giuridica che ha coinvolto il diritto tributario negli ormai lontani anni ’70.

C’era una volta una norma, l’art. 131 del d.p.r. 645/1958 (Testo unico delle leggi sulle imposte dirette), che, nell’indicare chi fossero i soggetti passivi dell’imposta complementare sul reddito complessivo, così stabiliva: «I redditi della moglie si cumulano con quelli del marito». Altre previsioni legislative andavano a completare questa disposizione, stabilendo che per la determinazione del reddito complessivo erano imputati al marito, quale soggetto passivo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, oltre ai redditi propri, i redditi della moglie e che la moglie era tenuta ad indicare al marito gli elementi, i dati e le notizie a questo occorrenti perché potesse adempiere l’obbligo della dichiarazione dei redditi. In sostanza una donna sposata doveva consentire al marito di adempiere i propri oneri fiscali, consegnandogli i documenti relativi ai redditi da lei conseguiti.

Ebbene nell’aprile del 1975 successe qualcosa. Sei donne, in sei città diverse d’Italia (Roma, Voghera, Livorno, Milano, Arona e Firenze), si rifiutarono di consegnare i dati ed i documenti relativi ai redditi conseguiti nel 1974 ai rispettivi mariti, che dovettero rivolgersi al pretore per richiedere un provvedimento in via d’urgenza volto alla condanna delle mogli alla consegna dei documenti richiesti.

I pretori dinanzi ai quali fu rivolta la domanda rimisero la questione alla Corte costituzionale, per asserita violazione di diversi articoli della Costituzione, in primis degli articoli 3, 29 e 53. La Corte costituzionale concluse per l’illegittimità costituzionale delle norme di cui si sta parlando, così ragionando: «Le norme di cui alla denuncia, violano il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e non sono ordinate sulla eguaglianza giuridica dei coniugi. […] Non si spiega come e perché un soggetto (il marito) possa e debba presentare una maggiore capacità contributiva per l’esistenza di redditi altrui di cui non abbia legalmente il possesso.

Sia l’uomo che la donna come cittadini, come lavoratori autonomi o subordinati, come coniugi, come contribuenti si trovano nelle medesime condizioni per ciò che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso. A tutti i cittadini è riconosciuto il diritto al lavoro; il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi; la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni; il lavoratore ha diritto alla giusta retribuzione; la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore».

L’8 marzo veramente deve essere tutti i giorni e la lotta, nel vero senso della parola, contro ogni forma di discriminazione, in primo luogo quella a danno delle donne, deve essere portata avanti sempre ed in ogni luogo, a casa come in tribunale, in strada come in Parlamento, sul posto di lavoro come davanti alla Corte costituzionale. E questa storia – nel suo piccolo – ci dimostra che davanti alla forza di una donna non c’è uomo, giudice o legge che tenga.

Auguri.