In principio era Atene, città “popolosa” della Grecia di qualche secolo fa, che aveva deciso di far partecipare i propri cittadini – uomini, purosangue ateniesi e di una certa età – alle decisioni riguardanti la polis, la comunità. La democrazia nasce quindi come forma di governo basata sulla partecipazione. Lo strumento con cui i cittadini avrebbero potuto partecipare al governo della città era il voto, espresso su dei cocci di anfore, gli ostraka. Nascono così i primi brogli elettorali e le schede nulle. Il voto, invece, esiste prima della democrazia e fuori dalla democrazia, la quale, semplicemente, lo trasforma in un diritto “di massa”, affinché le decisioni siano espressione della volontà non di uno, non di pochi, ma di tanti. Siccome “tanti” possono avere “tante” opinioni diverse (tot capitae, tot sententiae), la regola di base di una democrazia è che prevalga la scelta che appoggia la maggioranza, ma ognuno è libero di esprimere la propria opinione, qualunque essa sia (accettandone poi le eventuali conseguenze, qualora la legge le preveda). Per grandi linee, funziona così anche nelle democrazie “moderne”, e, di conseguenza, in Italia. La nostra costituzione afferma la sovranità popolare (principio democratico) all’articolo 1, aggiungendo che ci sono limiti e forme per l’esercizio. Una delle forme è proprio il voto, che all’art.48 è definito “personale ed eguale, libero e segreto”. Tutto quello che viene detto fuori dalle aule di Diritto Costituzionale, in prossimità di una qualsiasi votazione, sono interpretazioni o, come accade sempre più spesso, illazioni. In particolare, i risultati del referendum sulle trivellazioni, hanno riportato in voga l’idea che l’astensionismo sia la morte della democrazia e che votare sia quasi un obbligo del cittadino. Sulla natura del diritto di voto, qualificato dalla stessa Costituzione anche come “dovere civico”, il dibattito è ancora aperto, ci si scrivono libri, e litigano fior fior di giuristi – tanto che è la classica domanda che nessuno vorrebbe all’esame – ma finché la querelle non sarà risolta, o finché non siano previste conseguenze per il mancato rispetto del dovere, dobbiamo arrenderci al fatto che sia un semplicemente un diritto. Chi ha studiato almeno una volta materie giuridiche ha imparato che un diritto ha sempre due facce: la libertà positiva (il diritto di fare, nel nostro caso il diritto di votare) e la libertà negativa (il diritto di non fare, nel nostro caso il diritto di non votare). In quest’ottica, l’astensionismo è più che legittimo. Anzi, l’astensionismo è la vittoria della democrazia: il popolo che esprime liberamente e in modo vincolante un’opinione e un interesse completamente diversi dai propri governanti. Still, una vittoria di Pirro. Come il generale dell’Epiro sconfisse le truppe romane perdendo tutte le proprie milizie, l’astensione impoverisce l’apporto del singolo e del suo voto, rafforzando le frange estreme, “gli irriducibili”, che diventano una maggioranza piccola e risicata, sì, ma pur sempre maggioranza. Può sembrare ingiusto che una piccola percentuale, magari per puro gioco politico, decida per tutti, o che il voto espresso da chi “non ne capisce niente” sia uguale al voto di chi si è informato e ha scelto consapevolmente. Ma “la democrazia è questa, e non un’altra ideale”. Non è detto che sia la miglior forma di governo che possiamo avere, ma ha il pregio della libertà. Libertà anche di non farne parte, ma non di non accettarne le conseguenze. A meno che non otteniate una dichiarazione di incapacità. Poi lì, son problemi del tutore.