Quando le strade del mondo si tingono di umanità e solidarietà lo scenario è impagabile: Charles Bukowski diceva: “la gente è il più grande spettacolo del mondo e non si paga il biglietto” e la Women’s March ne è l’ennesima dimostrazione: donne, uomini e bambini di diverse nazionalità che inondano le vie perché la loro voce sia ascoltata, perché i loro diritti siano rispettati e le loro scelte prese in considerazione. Non è solo politica ma la dimostrazione che riconoscersi l’uno nell’altro è possibile e che non c’è niente di più meraviglioso di sapere che non si è soli; milioni di persone combattono la tua stessa battaglia, sono pronte ad alzare la voce e mettersi in gioco perché un diritto non diventi solo rumore di sottofondo, ma invece sia la voce narrante. Non importa in quanti e con quanta forza cerchino di abbassare il volume. Nonostante il nome, la marcia ha visto il coinvolgimento anche di numerosi uomini e, dato il suo carattere pacifico (non c’è stato neanche un arresto), si è dimostrata anche adatta alle famiglie. Molti, infatti, i bambini che hanno preso parte alla manifestazione insieme ai propri genitori, dimostrando così quanto sia grande il supporto riscontrato. La Women’s March è la più vasta manifestazione politica dai tempi della guerra del Vietnam. I numeri raggiunti, infatti, sono strabilianti: 2 milioni e mezzo di manifestanti e 670 marce sparse in tutto il mondo tra cui: Sydney, Seul, Tokyo, Londra, Barcellona, Madrid e numerose altre grandi città che hanno preso parte alla protesta. Ovunque le strade si sono tinte di rosa anche grazie anche al “pussyhat”: berretto rosa con le orecchie da gatto divenuto il nuovo simbolo del pink power e nato dall’idea di due amiche di Los Angeles di unire in un gioco di parole: “Pussycat”, che significa micio o gattina – usato anche per esprimere il concetto di ‘bella ragazza’ – e ‘hat’, cappello. Il berretto, indossato non solo dalle donne, è un chiaro riferimento alle parole pronunciate da Trump in una registrazione risalente al 2005 in cui si vanta di poter fare ciò che vuole con le donne. Il 21 Gennaio 2017, quasi tre milioni di persone in tutto il mondo hanno manifestato non solo contro la diseguaglianza di genere, ma contro la diseguaglianza di ogni genere; hanno visto come volevano dividerli e ne hanno fatto uno strumento di unione. Lo stesso Bernie Sanders, candidato alle primarie democratiche del 2016, ha twittato: “President Trump, you made a big mistake. By trying to divide us up by race, religion, gender and nationality you actually brought us closer.” (Presidente Trump, ha fatto un grande errore. Provando a dividerci in razza, religione, genere e nazionalità ci ha in realtà avvicinati). Unione è infatti la parola chiave di questa manifestazione. È importante però ricordare che il significato di questa parola non è l’essere d’accordo su ogni cosa, ma piuttosto rispettare tutti perché la dignità di un essere umano non dipenda dal fatto che questo ci piaccia o meno; un’unione che vada oltre la destra e la sinistra e che stia semplicemente dalla parte del giusto. Tra i molti slogan proposti, infatti, spicca per originalità e significato quello che recita “Love each other more than you hate him” (“amatevi a vicenda più di quanto lo odiate”) in cui il riferimento al neo presidente eletto Donald J. Trump è evidente, ma tutt’altro che centrale e lascia spazio a un concetto più profondo e universale: il potere dell’amore, in ogni sua forma. Nonostante ciò, il sentimento anti-Trump ha svolto un ruolo fondamentale e primario nella manifestazione; numerosi sono stati i riferimenti alle parole spese dal tycoon in occasioni precedenti, specialmente nei confronti delle donne, primo tra tutti l’appellativo “nasty” usato nei confronti della Clinton in campagna elettorale. La protesta è stata, inoltre, interpretata come l’inizio di un periodo di “Resistenza” che comincia dal primo giorno successivo all’insediamento del magnate newyorkese alla Casa Bianca e non ha intenzione di arrestarsi fino alla fine del suo mandato. “Neanche un giorno di luna di miele”, queste le parole di molte attiviste presenti. Una battaglia, quella al sessismo di Trump, che non può aspettare neanche un altro minuto, perché massima rappresentazione di uno obsoleto atteggiamento nei confronti delle donne, spesso caratterizzato dalla mancanza di rispetto nei confronti del sesso femminile e un’ingiusta svalutazione del loro valore e dei loro risultati. Il fatto che un leader possa condividere una tale visione, a prescindere dal fatto che abbia o meno già agito in questa direzione, è sconcertante e mortificante per tutti coloro che si battono e si sono battuti perché l’eguaglianza non fosse più solo utopia e che ogni libera scelta non dovesse più nascondersi. Libera scelta che non può non comprendere anche il diritto all’aborto, tema caldo nei confronti del quale Trump si è detto più volte contrario, assicurando ai suoi elettori la nomina di uno o più giudici anti-abortisti. Le donne rispondono al grido di “My body, my choice” rifiutando anche solo la potenzialità di dover sottostare ad ingerenze governative circa una scelta così personale, di nuovo. La lotta al sessismo ha le sue radici lontane nel tempo e nel corso degli anni di strada ne ha fatta molta. Conquiste come il diritto al voto o all’aborto sono frutto dell’impegno di tutta quella gente che prima di noi ha avuto l’audacia di credere in un mondo libero da pregiudizi e stereotipi ma, nonostante ciò, purtroppo, questa battaglia non è ancora terminata. Esattamente come la Women’s March, non è uno sprint ma una maratona. In molti si stanno chiedendo in che modo questa battaglia continuerà nel tempo. Per rispondere all’interrogativo alcuni gruppi invitano i cittadini a essere sempre più attivi nella società: si consiglia di offrirsi volontari in gruppi che riflettono i propri valori; comunicare il più possibile con i membri del Senato, tramite lettere o quando possibile di persona e, soprattutto, di aumentare il livello di partecipazione agli uffici pubblici, candidandosi a tali cariche. Una giornata, quella del 21 Gennaio, che ha portato di nuovo in prima pagina quell’idea di femminismo puro da non confondere con un “Feminazi”, come in molti hanno ironizzato durante la manifestazione, che mira alla realizzazione di una società di pari diritti. Una società di cui nessun uomo dovrebbe aver paura perché non nociva per nessuno dei suoi diritti, se non per quello infondato di riconoscersi superiore solo perché nato con un pene. Aldo Cazzullo ha chiamato questa generazione la “generazione Hermione”: donne determinate, coraggiose, inclini allo studio e al successo che non temono le sfide e sono pronte a rischiare pur di perseguire ciò in cui credono. Mi piace pensare che questa marcia sia stata la conferma che questa generazione esiste davvero, che dopotutto Hermione era presente.
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