Il finale delle serie televisive come CSI, NCIS o Law&Order è quasi scontato: i cattivi vengono catturati e la giustizia trionfa. Persino in Scooby-Doo il colpevole finisce sempre in manette, poco prima dei titoli di coda. Dopodichè, l’episodio finisce e la volta seguente si ricomincia da capo con una nuova puntata. Viene normale, dunque, domandarsi: nella realtà, cosa succede dopo? Qual è la fine dei criminali nel nostro sistema penale? Una volta consumato il delitto, in cosa consiste il castigo? La risposta è che chi commette un qualsiasi reato, quando condannato, finisce spesso intrappolato in una struttura altamente inefficiente, profondamente inefficace, oltre che estremamente costosa per lo Stato che se ne fa carico. Il carcere è un’istituzione sconosciuta praticamente a tutti ma che costringe le vite di molti, tanto detenuti quanto personale carcerario e loro famiglie. Questo non riceve il peso mediatico e scientifico che meriterebbe, e la conseguenza è che il sistema carcerario italiano non funziona come si pensa e si spera; a dirlo è un tasso di recidiva – e cioè il numero di coloro che, una volta usciti da prigione, tornano a delinquere – che rasenta il settanta per cento. Ciò si traduce in crimine e talvolta anche in più crimine, dal momento che, come molti autori hanno riconosciuto, una cella diventa una scuola formidabile dove le competenze si aggregano ed i gruppi di delinquenti rafforzano i propri istinti criminosi – tant’è che è proprio per questo che esistono istituti quali il perdono giudiziale o la sospensione condizionale della pena volti proprio a sottrarre alcuni individui, soprattutto se minorenni, all’ambiente deleterio che è un istituto penitenziario. Per fare un paragone paradossale: se rinchiudessimo tutti i premi Nobel per la medicina in un laboratorio per quindici giorni, è possibile che venga fuori qualcosa di buono; facendo lo stesso con tutti i criminali d’Italia per qualche anno, il risultato non è neanche lontanamente vicino alla scoperta della penicillina. Eppure, la pena moderna –in contrapposizione ad una peine forte et dure tradizionale– oltre ad un carattere puramente preventivo e cioè dissuasivo, dovrebbe anche avere una base rieducativa, come vorrebbe l’articolo 27 della nostra Costituzione. Dovrebbe cioè, agendo direttamente sulla persona di chi ha commesso il reato (il reo), renderlo idoneo a reinserirsi nella società come individuo libero e responsabile, lontano dal farsi tentare nuovamente dall’illegalità. Vero è che la pena deve «tendere» alla rieducazione del condannato, non certo garantirla; lo studio ed il lavoro nelle carceri, le attività culturali, ludiche e sportive, nonché l’educazione morale e religiosa, sono previste dalla legge e volte proprio a questo scopo. A guardare i numeri, però, sembra di essere ben lontani da una pena che anche solo tenda all’emenda. Senza considerare il fatto che nel nostro ordinamento è ancora vigente quella che è stata definita una «pena di morte viva». L’ergastolo –e cioè la privazione della libertà personale per tutta la durata della vita–, la cui durezza è stata notevolmente mitigata negli anni, resta comunque la rinuncia da parte dello Stato all’opera di rieducazione finalizzata al reinserimento nella società (anche se, con grande rigore, la Corte Costituzionale si è espressa ‘favorevolmente’ all’istituto nel 1974). Forse le cause dell’alto tasso di recidiva sono da ricercare nella mancata diffusione del lavoro nelle carceri in maniera seria e sistematica, che è oggi più l’eccezione che la regola. Eppure, come la stessa Consulta scrive, «il lavoro, […], è gloria umana, precetto religioso per molti, dovere e diritto sociale per tutti (art. 4 Cost.) e reca sollievo ai condannati che lavorando, anche all’aperto, […], godono migliore salute fisica e psichica, conseguono un compenso e si sentono meno estraniati dal contesto sociale». Il lavoro nobilita mentre l’ozio avvilisce. Purtroppo, come ha fatto notare Report su Rai3 in un servizio del dicembre 2014, il lavoro costa, e spesso mancano i soldi per far lavorare i detenuti, soprattutto considerando che, per legge, tre quinti della retribuzione vanno comunque riservati al condannato, mentre con la restante parte dello stipendio vanno pagate spese processuali, di mantenimento e le somme dovute a titolo di risarcimento del danno. Chiaro è che la remunerazione per il lavoro prestato è di per sè rieducativa, in quanto altamente gratificante. Perciò il lavoro completamente gratuito non è un’opzione efficace. Non si potrebbe, però, quantomeno abbassare la soglia della quota che va comunque riservata al condannato, considerando anche l’alto debito – non solo economico, ma anche morale – che quest’ultimo ha nei confronti della società? Oppure sostituire, in tutto e per tutto, lo stipendio con degli sconti di pena, anch’essi sicuramente gratificanti nonché efficaci (chi non vorrebbe uscire prima di prigione lavorando, anziché passare più tempo a fare niente all’interno di una cella minuscola e spesso sovraffollata?). Senza considerare che è previsto che i detenuti possano svolgere lavori di pubblica utilità, gratuiti e su base volontaria, a favore dei Comuni che ne facciano richiesta. Quanto gioverebbe alla collettività che le strade sporche di immondizia e scritte sui muri venissero ripulite da quella che è oggi una enorme forza lavoro sprecata – si contano 50.000 detenuti in tutta Italia – senza gravare ulteriormente sulle casse di amministrazioni pubbliche locali già abbastanza disastrate. Insomma, le cose sulla carta funzionano bene, ma nella pratica non si potrebbe fare peggio. Tutto il sistema penitenziario italiano finisce per costare ai cittadini onesti e liberi l’esorbitante cifra di 2 miliardi ed 800 milioni di euro. L’alto tasso di recidiva è, probabilmente, legato anche alle precarie condizioni in cui si sconta la pena. Superfluo è approfondire le condanne inflitte all’Italia negli ultimi anni da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) per la situazione del sovraffollamento delle carceri, che presenta «carattere strutturale e sistemico», e non eccezionale. Bisogna ricordare che gli sforzi del Governo negli ultimi anni sono riusciti a mitigare la situazione, ottenendo anche l’approvazione della stessa Corte EDU; ad esempio, oltre ai decreti svuota carceri, è stato previsto un abbuono di un giorno di pena ogni dieci passati in carceri sovraffollate. Ed anche all’estero, tali problemi sono stati affrontati efficacemente, talvolta anche in maniera innovativa: in Germania la Corte Costituzionale ha legittimato liste d’attesa carcerarie nel caso di carceri sovraffollate, perché la dignità del singolo non può venire lesa dalle disfunzioni del sistema penitenziario. Le situazioni di degrado, tuttavia, persistono e ciò crea stress e disagi inutili tanto ai detenuti quanto al personale che negli istituti penitenziari ci lavora. Disagio endemico che, alla fine, rischia di sfociare in situazioni inaccettabili di violenza ed abusi, aggravate dall’assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento –attualmente un disegno di legge sta seguendo un lungo iter parlamentare che si spera si concluda presto e positivamente. In passato, numerosi sono stati tanto i casi ‘celebri’ quanto quelli meno noti di violazione dei diritti fondamentali dei detenuti ad opera di agenti di polizia penitenziaria, coperti da colleghi e medici compiacenti. Per quanto riguarda i cd. «fatti di Asti» del 2004-2005, in cui sono state perpetrate contro dei condannati violenze raccapriccianti ad opera di alcuni agenti di polizia penitenziaria e venute fuori solo grazie alla testimonianza fondamentale di alcuni loro colleghi, il giudice ha scritto nella sentenza che tale comportamento di denuncia è eccezionale rispetto alla normalità di «un corpo sostanzialmente militare, gerarchizzato e chiuso nel quale sussistono sentimenti di solidarietà». Alcuni commentatori hanno, però, notato che il problema delle carceri in Italia è dovuto tanto a come queste sono concepite, quanto all’uso eccessivo che se ne fa. A questo proposito, gli autori di Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (Chiarelettere, 2015) si domandano: il carcere è sempre esistito? Ed, esistono delle alternative? Gli istituti penitenziari come li concepiamo oggi sono relativamente moderni (prima si ricorreva a pene pecuniarie e, purtroppo, corporali) e non sono neanche previsti in Costituzione; questa parla di «pena», ma in nessun caso accenna alla «reclusione». Dunque, in che altro modo si può ‘castigare un delinquente’? Con pene non detentive, ad esempio, molto utilizzate all’estero: mentre in Italia l’82% dei condannati diventa detenuto, in Francia e Gran Bretagna solo il 24% finisce in galera, con tassi di recidiva molto più bassi. Nei paesi scandinavi, in cui le carceri rispettano pienamente i diritti umani e favoriscono il lavoro all’esterno e la crescita personale del detenuto, i tassi di recidiva sono bassissimi, oscillando dal 20% della Norvegia al 30-40% della Svezia. Alcune voci molto autorevoli come Calamandrei e Foa si sono schierate contro gli istituti di reclusione, prospettandone la loro definitiva abolizione. Sicuramente, servirebbe una loro umanizzazione e limitazione solo alle ipotesi più gravi di reato. Le carceri non possono essere dei luoghi bui e dimenticati, in cui ogni abuso è lecito e nessuna possibilità di ravvedimento è data al condannato. È inoltre eccessivo, come giustamente notato dall’Antolisei, prevedere per un reato come il furto aggravato (poiché magari commesso da più persone e con un mezzo fraudolento come una scala) una pena che può arrivare fino a 30 anni di reclusione nel caso di reato continuato. Invece di ricorrere sempre allo strumento afflittivo della reclusione, non sarebbe meglio ipotizzare esclusivamente delle ritenute sull’eventuale stipendio, misure interdittive o lavori sociali? Per i reati minori, le pene accessorie potrebbero sostituire in tutto e per tutto quelle principali, mantenendo il carcere solamente per i reati più gravi (omicidi, rapine, sequestri di persona e così via) per cui effettivamente ricorre un problema di forte pericolosità sociale. Insomma, rivedere l’intero sistema penale per limitare legislativamente l’uso del carcere (come già proposto dalle varie commissioni ministeriali di riforma istituite negli ultimi decenni), evitando alla giurisprudenza salti mortali per mitigare le conseguenze nocive di un sistema di pene eccessivamente duro. Per combattere il crimine non serve inasprire ma razionalizzare le pene, concentrando le risorse nella prevenzione dei reati. Il tutto, chiaramente, per garantire la sicurezza delle nostre società. Ricordiamo l’insegnamento di Beccaria nel Dei delitti e delle Pene: «la certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità». Articolo apparso su “360° – Il giornale con l’Università intorno”, n.01, settembre 2015, anno XIV.