Pena capitale in Iran: violazione legalizzata del diritto alla vita
All’alba del 25 ottobre è stata impiccata, in una prigione dell’Iran, Reyhaneh Jabbari.
Le ultime notizie che abbiamo di lei ci arrivano dalla madre, alla quale è stato concesso di vederla il giorno prima dell’esecuzione, e che di lei scrive sul social network: “mia figlia con la febbre ha ballato sulla forca”.
Fino all’ultimo momento il mondo intero ha sperato che questa lotta, iniziata quando la ragazza aveva 19 anni, si concludesse per il meglio. Invece, la mobilitazione di associazioni e istituzioni a livello globale non è bastata a fermare la macchina della giustizia Iraniana, la cosiddetta “legge del taglione”.
La ragazza infatti era stata condannata a morte nel 2009 per l’uccisione dell’uomo che, con il proposito di procurarle un lavoro, aveva tentato di violentarla. Durante il processo la famiglia della vittima aveva addirittura acconsentito al perdono, che in Iran equivale alla cancellazione della pena capitale, a patto che la ragazza ritirasse l’accusa di tentato stupro. Nonostante la possibilità di ottenere il perdono e quindi di salvarsi la vita, Reyhaneh non ha mai voluto ritrattare la sua versione, confidando in quella stessa giustizia che di lei non ha avuto pietà.
Numerosi sono stati anche gli appelli internazionali, da Amnesty International al Papa: mobilitazioni atte non soltanto a scongiurare l’ingiusta condanna di una singola donna, ma a ribadire e ricordare al mondo intero la brutalità della pena capitale commessa dallo Stato stesso, un crimine che accomuna ancora troppi governi mondiali, dalla Cina agli Stati Uniti.
L’esecuzione di Reyhaneh è l’ennesima dimostrazione di un meccanismo ingiusto e perverso, che punisce la morte con la morte: come ha commentato il ministro degli esteri Mogherini ” la ragazza è stata vittima due volte.” Non si tratta solo di femminismo, e nemmeno di una ridicola esaltazione della giustizia occidentale; la questione qui verte sul dibattito riguardante la difesa della vita come diritto imprescindibile e inalienabile.
Senza entrare nelle già dibattute congetture sulla limpidezza del processo che ha condotto Reyhaneh alla morte, la riflessione nasce da sè quando si legge la condanna: “Omicidio premeditato”, e non semplicemente “omicidio”, o “omicidio con attenuante di legittima difesa”. Questa ragazza, a 25 anni, ha detto addio al mondo, al suo popolo, a sua madre nelle vesti di ingiusta assassina, di criminale: per lei, fin dall’ inizio, non ci sono state nè comprensione, nè pietà, nè giustizia.