Credo con convinzione nel progetto dell’Unione Europea, e perciò non posso che essere amareggiato dalla vittoria del Leave. Questo è un momento storico per il futuro dell’Unione Europea, che si trova a un bivio. Se da un lato si è realizzato ciò che temevo, ossia che la vittoria dell’euroscetticismo nel Regno Unito portasse, inevitabilmente, anche gli altri stati a rimettere in discussione la loro permanenza nell’Unione Europea, dall’altro, questo shock, che è riuscito a risvegliare in molti il sentimento europeista, può rappresentare il catalizzatore necessario affinché il processo di integrazione acceleri, partendo dalle riforme delle istituzioni europee. Non si può negare che ci sia un deficit democratico nell’Unione Europea e che le istituzioni siano percepite sempre come più lontane dai cittadini: questo è il momento per cambiare. Anche da prima che ne fosse noto il risultato, fin da quando era uno dei principali argomenti della campagna elettorale per le elezioni generali del 2015, nutrivo profondi dubbi su questo referendum. Non si possono ridurre a un singolo quesito referendario 80mila pagine di accordi alla base di un trattato internazionale che tratta di materie che vanno dalla politica agricola alla politica di difesa: le conseguenze e la portata di questa scelta, siano positive o negative, non possono essere chiare all’elettore. Questi accordi non possono essere strappati: uscire dall’Unione Europea significa rinegoziarli. Non è certo con un referendum che si può decidere come rinegoziarli. Per non parlare dell’attività legislativa del Regno Unito, che dal 1973 è stata influenzata dalle fonti europee. Ma più che l’Unione Europea, a perderci con questo risultato è proprio il Regno Unito, che, è bene ricordarlo, già era con un piede fuori dall’Unione Europea. Godeva (e continuerà a farlo finché la procedura per uscire non sarà terminata: potrebbero volerci una decina di anni) di enormi privilegi, a cominciare dalle quattro clausole di opt-out che permettevano di non partecipare ad alcuni settori delle politiche comunitarie (Accordi di Schengen, Unione Economica e Monetaria, Carta dei diritti fondamentali e Giustizia e affari interni, quest’ultimo con la possibilità di aderire a determinate decisioni). Il 20 febbraio, poi, aveva ottenuto ulteriori diritti, non concessi a nessun altro stato: la riduzione, e in alcuni casi la sospensione, di benefici fiscali a cittadini di altri paesi della UE, la modifica dei trattati europei affinché fosse esplicitamente indicata l’esclusione del Regno Unito dagli stati determinati a impegnarsi per una maggiore integrazione, e altre garanzie per industrie e società finanziarie con sede nel Regno Unito. Se dal punto di vista economico i pareri sugli effetti che avrà l’uscita dall’Unione Europea sono, come sempre, contrastanti e potranno essere giudicati solo in futuro, dal punto di vista politico, questo referendum ha portato a una crisi di governo e ha accentuato la spaccatura con la Scozia e l’Irlanda del Nord, dove il risultato, in contrasto con il resto del paese e in favore del remain, ha dato l’opportunità al Partito Nazionale Scozzese e al Sinn Féin di poter riaprire il discorso sull’indipendenza. Cameron alle elezioni generali aveva deciso di inseguire i voti dei populisti dell’UKIP promettendo questo referendum: come spesso accade in politica, è stato travolto dalla stessa onda che aveva cercato di cavalcare. La colpa è anche della classe politica britannica che, come le sue controparti degli altri paesi europei, non ha mai esitato a utilizzare l’Unione Europea come capro espiatorio di ogni problema: per questo motivo, è risultato difficile e in alcuni casi poco credibile fare campagna per il remain, campagna che infatti è stata, a parte alcune eccezioni, molto tiepida. Questo ha permesso ai sostenitori del leave di condurre una campagna di disinformazione (e non stupisce, dal momento che quando Boris Johnson era inviato del Telegraph a Bruxelles era solito inventare notizie false sull’Unione Europea): già è stato dichiarato da Nigel Farage, leader dell’UKIP, che, a differenza di quanto promesso, non sarà possibile investire nel servizio sanitario nazionale i 350 milioni settimanali che il Regno Unito versa nelle casse dell’Unione Europea. Interessante analizzare il cloud delle parole utilizzate in questa campagna dalle due parti: la campagna del leave ha utilizzato prevalentemente l’immigrazione come argomento, a dimostrazione di come la campagna sia stata fatta puntando alla “pancia” degli elettori, strumentalizzando questo voto. Social media cloud for Leave, Remain posts. Two completely different worldviews. pic.twitter.com/S5ebV8H3J8 — ian bremmer (@ianbremmer) 24 giugno 2016 A questo punto è legittimo chiedersi se allora, forse, è la democrazia a non funzionare. Capisco chi in queste ore ha, provocatoriamente, condiviso l’articolo del Washington Post, tradotto da il Post: devono votare anche gli ignoranti? La risposta è semplice: ovviamente sì. Il suffragio universale è una grandissima conquista e non si deve tornare indietro. Ma se non dobbiamo mettere in discussione il suffragio universale, questa provocazione è utile perché ci porta a farci delle domande su un aspetto, altrettanto importante: la qualità di questa democrazia. Sia chiaro, non mi interrogo su questo solo perché l’esito delle urne è contrario a quanto sperassi, anzi: è una domanda che tutti dovremmo farci, puntualmente, senza presunzione, per capire se c’è qualcosa che non funziona. La democrazia in un paese non funziona se i cittadini non sono informati adeguatamente (questo grafico dell’Economist dimostra che sull’Unione Europea dai media sono state diffuse un numero enorme di notizie false), non funziona se c’è un picco di ricerche su Google provenienti dal Regno Unito su “what is the EU?” solo dopo il voto, evidentemente non funziona se degli elettori dichiarano che se potessero votare nuovamente, voterebbero per un’opzione diversa da quella votata in precedenza, perché hanno votato pensando che il loro voto non sarebbe contato. I referendum e la democrazia diretta sono uno strumento importante e da valorizzare, ma non vanno bene per tutto. Non esiste una forma di governo ottimale, ma quella che funziona meglio è la democrazia rappresentativa: le nostre democrazie sono rappresentative perché deleghiamo a un gruppo di persone, che si auspica siano più esperte di noi in materie di loro competenza, per scegliere con criterio su argomenti specifici. Dire che una scelta è giusta e incontestabile solo perché presa dalla maggioranza è una sciocchezza bella e buona. Smettere di interrogarci sulla qualità della democrazia rischia di farci accettare tutte le scelte solo perché prese democraticamente. Polibio, nelle Storie, parla di una forma degenerata di democrazia, l’oclocrazia, il governo delle masse: in un paese in cui vi sono disordini politici e corruzione dilagante, il popolo rischia di credere a un demagogo che instaurerà un potere assoluto dittatoriale. La storia ci ha dimostrato che può succedere. L’Unione Europea va riformata proprio per questo motivo: c’è bisogno innanzitutto di maggiore accountability e trasparenza all’interno delle sue istituzioni. Solo così può esserci un riavvicinamento tra gli europei, sfiduciati, e i loro rappresentanti. “La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà”.
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