Capitolo Primo – I conti in sospeso.

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    I numeri mi piacciono da quando avevo tre anni di età. Mi ricordo quel giorno come fosse ieri. Mia madre aveva un modo tutto particolare di stuzzicare la mia curiosità. Già da quell’età sapevo leggere e quasi anche scrivere. Avevo solo un problema: decidere se diventare destro o mancino, era per questo che scrivere non mi veniva ancora bene.

    Sì, perché da quando scoprii che al mondo esistono i destri ed i mancini, io non riuscivo proprio a decidere da che parte stare. Per 11 mesi, mia madre mi racconta, ho avuto una speciale forma di DOC (disturbo ossessivo compulsivo): ogni cosa che facevo con la mano destra, poi la dovevo fare anche con la sinistra. Mia madre mi ha detto che lo facevo perché volevo capire con quale delle due quella particolare cosa che stavo facendo mi venisse meglio. Mio padre cercò in vano di spiegarmi che ci si nasce, destri, o mancini. Ma io non ascoltavo ragioni fino al giorno in cui, finalmente, non decisi di essere entrambi: ero ambidestro.

    Mia madre cercava anche di impegnarmi con delle piccole addizioni o sottrazioni. Un giorno, per esempio, mi chiese, proprio nel momento in cui i miei soldatini di plastica verdi riuscivano a passare la gola buia ed ostile tra il divano e la poltrona per poi cogliere di sorpresa il contingente nemico, mi chiese, dicevamo, di prenderle 4 mele, “che faccio la crostata” mi disse. Io ero tremendamente contrariato ma l’operazione “Tappeto Persico” dovette aspettare. Furbamente lei aveva già separato le mele: ne aveva lasciate solo due sul tavolo in cucina; le altre erano nel frigo, nel cassettone “Frutta e Verdura”, in basso. Io m’accorsi immediatamente delle mele sul tavolo. Gliele portai. Non bastarono.

    -Queste sono 2 mele, non 4.

    Io fui sinceramente scocciato, lo ammetto. Mi disse di guardare nel frigo. Corso lì, aprii il frigo e al solo guardare in basso mi trovai sommerso da una vagonata di mele. E le guardavo, tra l’interrogativo e l’incazzato nero. “Quante gliene servono ancora?” mi chiedevo. Allora mia madre mi disse -conta!- ed io pensai che a me manco mi piaceva la crostata di mele, ma contai. Contai con le dita.

    Quel giorno, probabilmente persi la battaglia della “Gola di velluto”, ma fu pure il maledetto giorno in cui scoprii la matematica, riversai il mio tempo, la mia curiosità e tutti i sogni di mio nonno (ex professore di matematica) nei numeri.

    Da quel giorno cominciai a contare qualsiasi cosa, tra cui: il numero di piatti del servizio buono (8 divenuti 7 per un fatale scherzo del destino proprio mentre li contavo); le dita della nonna; le ruote di una bicicletta; le ruote di una bicicletta senza ruote (quel giorno scoprii lo zero); i gradini che salivano la via di casa mia (60, maledetti); le volte che mamma mangiava qualcosa fuori dai pasti; il numero di mattonelle del bagno; le volte che la maestra strizzava l’occhio destro a causa di quello strano tic che aveva; ecc…

    Così, al principio, decisi di diventare anch’io professore di matematica ma poi mio nonno mi disse qualcosa che non riuscii a cogliere sui dipendenti statali e sul declassamento del ruolo dell’insegnante nell’odierna società civile e cambiai idea. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire il termine “declassamento”. Quindi volli essere matematico e poi fisico.

    Mi ricordo che avvertivo una particolare ossessione per il numero tredici, forse a causa del fatto che, in un dato periodo, questo numero ritornava spesso. Così cominciai ad annotare su un quaderno tutte le volte che il tredici appariva, per somma o sottrazione, ai miei occhi. Tredici come i denti dell’arcata superiore di zio Arturo; tredici come la parte numerica della targa dell’auto di mio padre, meno quella di mia madre; tredici come il numero di femmine nella mia classe; tredici come l’ora dell’ultima campanella; tredici come la somma delle cifre della mia data di nascita (28/03, casualmente del ‘94).

    Tutto s‘interruppe il primo giorno di prima elementare. Mio papà m’accompagnò fino in classe. Eravamo in ritardo (una costante nella mia carriera scolastico-accademica) così la maestra mi chiese come mi chiamassi. Io mi girai verso mio padre che nel frattempo si era già dileguato per le scale.

    Le risposi timidamente.

    -Ah, Fabio Mancini… il nipote di Lorenzo? Il figlio di Vincenzo? Il fratello di Lorenzo?

    (sì, mio fratello, come da prassi qui al sud, essendo il primogenito, ha preso il nome di mio nonno ed avendo appena finito le scuole elementari, la maestra ne conservava un fresco ricordo).

    -Si.- risposi, -sono io..- un po’ intimorito.

    -Bel nome, Fabio.- mi disse.

    Non mi ricordo a cosa pensai in quel momento, ma se avessi conosciuto qualche parolaccia a quell’età, certamente il mio pensiero ne avrebbe contenute un paio. Però la vecchia aveva ragione. Proprio bel nome.

    Andai a posto ed ancor prima di sedermi feci qualcosa a cui stupidamente non avevo mai pensato: contare le lettere del mio nome.

    Fabio=5; Mancini=7.

    5 + 7= 12.

    Dodici. Dodici.

    Non tredici ma dodici.

    Se fosse stato un altro numero, fosse stato pure il 18 non me la sarei presa così tanto. Ma il dodici era troppo vicino al tredici per non farmi sprofondare in un abisso d’incertezze.

    La delusione, condensata sul banco, si levò in cielo; evaporò fino a formare una grande nube bianca da cui fioccarono da lì in avanti solo pessimi voti in matematica: maggiori o uguali a 2, ma sempre minori di 6.

     

    Non è facile perdere con questa violenza una passione così grande. Non lo fu nemmeno per i miei genitori e per mio nonno che vedendomi così abbattuto cercavano di scoprirne di più. Ero talmente scosso che non rivelai a nessuno la mia vergogna e per tenere a bada tutti scelsi a tavolino una nuova passione. Scelsi le lingue cosicché i miei genitori furono pure più contenti e la delusione del nonno fu arginata e combattuta dalla soddisfazione di sua moglie, mia nonna, ex professoressa di francese.