“Bisogna accettare il fatto che le Nazioni Unite sono uno specchio, un riflesso del mondo così com’è, non dobbiamo mai dimenticarlo, che ci piaccia o no.” Queste le parole di Jan Eliasson, diplomatico svedese dal 2012 vice-segretario ONU. E se ciò che afferma è giusto, e se dunque le Nazioni Unite – la più grande organizzazione internazionale del pianeta – sono un riflesso minuzioso della realtà, allora lo stesso potrebbe dirsi per le simulazioni ufficiali dei loro lavori, i Model United Nations, più noti con l’acronimo MUN. Quest’anno, insieme a un’associazione (World Students Connection) che ha coinvolto più di novanta studenti provenienti da università di tutta Italia, ho deciso di prendere parte come delegata al National MUN che annualmente si svolge a Washington DC e che richiama svariate centinaia di studenti provenienti da innumerevoli atenei del mondo. A settant’anni dalla loro nascita, le Nazioni Unite continuano molto spesso ad apparire come un complesso di organi e agenzie troppo debole, goffo e sprovvisto di poteri efficaci per far fronte alle instabilità internazionali, crescenti e inarrestabili. In più, debbono affrontare il malcontento di molti stati (tra cui il Giappone e la Germania) che sperano in una ridefinizione della composizione del Consiglio di Sicurezza, considerata la sua logica di assetto ormai obsoleta e rispondente agli equilibri di un mondo che di certo non esiste più. Alla luce di quanto è tragicamente avvenuto di recente – gli attacchi di matrice terroristica di Parigi e di Bamako – la cooperazione, la solidarietà e l’impegno comune sono punti focali di questo rinnovato scenario internazionale a cui numerosi capi di stato e di governo hanno fatto largo appello. Ecco, vivere appieno il MUN non significa solo partecipare ad un’esperienza gratificante, soprattutto ricca di significati e di valori che si inseriscono in un contesto dinamico. Perché non “ci si crede” semplicemente dei delegati, ma si sperimenta ogni tentativo di azione da intraprendere di fronte a una realtà mutevole, multiforme e insidiosa, vagliando di ogni scelta tutte le opportunità e gli ostacoli, diventando ambasciatori delle proprie idee. Proprio così, ritornano in modo incondizionato la cooperazione, la solidarietà e l’impegno (inteso – come nella lingua inglese, che lo chiama commitment – nella sua duplice accezione di promessa ma anche di dedizione verso una causa). Questi tre elementi sono oltremodo funzionali ad ogni scelta e ad ogni accordo necessario per giungere a una fase successiva: la fissazione dell’agenda dei lavori e, più tardi, la creazione di una risoluzione (più o meno) condivisa, da sottoporre a una netta votazione. Dentro un Model ci sono tutti quei piccoli passi della negoziazione e della mediazione che chi vorrebbe abbracciare una carriera di respiro internazionalistico ha sempre sognato di assaporare: il conflitto, il dubbio, i tentativi di convincimento, di conciliazione, le risposte titubanti o negative a cui far fronte, l’aspra opposizione che non cerca compromessi, il respiro trattenuto un attimo prima della votazione. In più, forse, permette anche di considerare contemporaneamente sia le “questioni calde” dello Stato rappresentato, sia quelle degli altri Stati con cui si decide di collaborare, e – perché no? – quelle del luogo in cui ci si trova, in un mélange affatto indifferente e che mette in contatto a doppio filo con la realtà contemporanea. E come altrimenti, le Nazioni Unite -potrebbero essere in grado di coinvolgere e ispirare una quantità così sbalorditiva di giovani innamorati delle relazioni internazionali, affamati di consapevolezza e di competitività? In un pianeta che cambia in modo così repentino, dove per i mass media (ma non per la Storia) il passato non si ripete mai e il presente ha sempre qualcosa di nuovo da aggiungere, un MUN è uno dei mezzi più intuitivi e diretti per continuare (o ricominciare?) a credere nella forza disperata del dialogo e del compromesso. Perché, molto spesso, è più semplice scatenare una rappresaglia che combattere per cercare un accordo.