In una partita combattuta e piena di sorprese come quella delle primarie di quest’anno – soprattutto sul fronte repubblicano – accade che anche un match di secondaria importanza possa rivelarsi determinante per chiudere i giochi. È quel che è successo in Indiana, Stato del profondo Sud poco rilevante per il numero di delegati che assegna. Ted Cruz, senatore ultraconservatore del Texas, divenuto da qualche tempo l’improbabile candidato dell’establishment dopo l’uscita di scena di Jeb Bush e Marco Rubio, aveva puntato tutto su questo terreno a lui particolarmente congeniale per recuperare lo svantaggio nei confronti di Donald Trump. E invece il magnate newyorkese lo ha battuto sonoramente – 53,2 a 36,7% – spingendolo a ‘sospendere’ la campagna, che in pratica significa ritirare la candidatura. Quasi per una sorta di effetto domino, John Kasich, il moderato governatore dell’Ohio, a cui erano sempre mancati i numeri ma non la volontà di presidiare lo spazio politico del centro in un’elezione spaventosamente spostata a destra, si è subito ritirato. Con questa nuova vittoria di Trump e l’uscita di scena di Cruz, è infatti definitivamente tramontata l’unica ipotesi che fin qui aveva tenuto in piedi la sua candidatura: la brokered convention, un’assemblea di partito divisa in cui nessuno ottenga la maggioranza assoluta e i delegati siano, dal secondo scrutinio in poi, liberi di votare il candidato che preferiscono, magari il prediletto dell’apparato. Sarà dunque Donald Trump, il candidato più inviso ai vertici repubblicani, il loro rappresentante ufficiale alle presidenziali di novembre. L’eventualità che l’establishment trovi un modo per rovesciare l’esito delle primarie bloccando una corsa che considera destinata al fallimento – e in effetti tutti i sondaggi dicono che, se si votasse oggi, Trump perderebbe – appare a questo punto quanto mai remota. Tanto più che così facendo il partito si alienerebbe definitivamente la propria base elettorale, dando nuova forza a quelle spinte antisistema che sono alla base dell’ascesa di ‘The Donald’. Da parte loro i Democratici hanno visto in Indiana una vittoria a sorpresa di Bernie Sanders, il settantacinquenne senatore ‘socialista’ che sta infiammando i cuori di tanti giovani e della componente più liberal dell’elettorato americano. Il Sud era stato infatti fino ad oggi il teatro dei più importanti trionfi di Hillary Clinton, capace di intercettare un elettorato più variegato dal punto di vista etnico di quello prevalentemente bianco che preferisce Sanders. Eppure anche questa vittoria, la diciottesima dall’inizio delle primarie, non cambia la situazione espressa dal numero di delegati, con la Clinton che conserva un vantaggio ormai impossibile da colmare. Tanto più che nello Stato che mette in palio la quantità più consistente di delegati fra quelli che ancora devono votare, la California, l’ex first lady e Segretario di Stato è data nettamente vincitrice. Allora perché Sanders non si ritira come hanno fatto, sull’altro versante, Cruz e Kasich? C’è da pensare che la sfida che il senatore del Vermont continua a lanciare alla Clinton non abbia più la Casa Bianca come obiettivo. Che la sinistra del partito intenda capitalizzare il consenso ottenuto, di gran lunga il più significativo in termini di entusiasmo e mobilitazione che un candidato sconfitto alle primarie abbia ottenuto da lungo tempo a questa parte. Lo scopo sarebbe allora quello di spostare il baricentro del Partito Democratico verso posizioni più progressiste, intercettando quel desiderio di cambiamento e anche un po’ di quello spirito anti-establishment che, seppure con una base ideologica opposta, danno ragione del successo di Sanders come di quello di Trump. Al momento non è dato sapere come tutto questo potrà influire sulla campagna per le presidenziali, una volta che il game delle primarie sarà ufficialmente over. Una cosa sola sappiamo: sarà Trump contro Clinton.
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