Occhi che luccicano per le strade di Buenos Aires: la scelta di Lucrezia

In foto: Lucrezia Villalta Occhi che luccicano per le strade di Buenos Aires: la ricerca di Lucrezia

Ha si e no quarant’anni. Si chiama Pedro. Le mani grandi, i lineamenti buoni, l’espressione stanca, marcata. Mentre guida mi parla della città, la sua città. Quella in cui ha deciso di diventare un tassista solo per poter ascoltare le storie degli altri e scoprire nuove vie.
Lo guardo di sfuggita, dal riflesso anteriore dello specchietto. Non voglio che se ne accorga. Lui, in mezzo al traffico di Buenos Aires, continua a parlare. Poi, finalmente, me lo chiede. “signorina, ma perché ha scelto di fare l’erasmus proprio qui?”
Sorrido, guardando fuori dal finestrino. “Non lo so” gli rispondo, e poi ancora “credo sia per via della magia che si respira qui”.
Pedro non capisce. Il mio accento spagnolo della penisola iberica gli da fastidio, lo irrita, impedendo alla sua mente di comprendere fino in fondo le mie parole. Così, lo guardo intensamente e ritento “le persone che si sono trovate in questa città, ne parlano in un modo che non so spiegare. È un modo affascinante, e magico, ed è quel loro modo di parlare che mi ha spinta a venire qui. Quel movimento che fanno i loro occhi quando pronunciano il nome di queste vie, è questo ciò che voglio provare”

Pedro scoppia a ridere. Poi mi chiede se gli italiani sono tutti così romantici. E quasi per farmi felice, fa quel magico ghigno con lo sguardo anche lui.

Io, in realtà, che amo questa città l’ho capito solo dopo. L’ho capito una mattina, faceva freddo, e da due mesi ero andata via da Roma. L’ho capito così, come si capiscono certe cose dopo che si smette di cercarle. Quando te le ritrovi davanti agli occhi e allora non puoi far altro che accettarle. O almeno dovresti.

Che amo questa città l’ho capito dai suoi abitanti.
Sono le vite che qui nascono, crescono, si incontrano, e si scontrano a rendere questo luogo magico e meraviglioso. C’è qualcosa nelle espressioni della gente, nel loro modo di parlare, di interessarsi fortemente alla storia dell’altro, che da noi non esiste. O è andato perduto.

Qui ai professori si da del tu. Del tu. Ti salutano con un bacio sulla guancia, da sinistra. Poi ti sorridono. Chiamandoti per nome. “Lucrezia, come stai? Ci sei andata a mangiare la pizza da Ignacio? E al tango?” È ancora “oggi ti sei messa il rossetto, che carina”. Qui i professori ti danno il loro numero di whatsapp perché se alle tre del mattino stai studiando, e non capisci, puoi sempre mandargli una nota vocale. E la cosa bella è che rispondono.

Qui tra i banchi si beve tutti insieme il mate. Che è un’infusione di erbe fortissima, e se non ci metti lo zucchero e sei europeo, la prima volta che lo provi ti viene da vomitare .
Il mate passa di mano in mano da uno studente all’altro. Quando è il tuo turno devi mandarlo giù tutto, in un colpo. Poi lo devi passare a quello che viene dopo di te. E se non lo finisci si offende.

“È così”, penso mentre Pedro continua a guidare. “Mi sono innamorata di questa città innamorandomi delle persone che la popolano”.
Dei tanti tassisti buoni come lui e delle loro domande, mentre sulla 9 de Julio (la strada più larga del mondo) la macchina è immobile e il vento entra dal finestrino.
Mi sono innamorata delle amicizie che ho stretto, della mia famiglia internazionale. I miei nuovi amici, fratelli. Studenti come me. Ma provenienti da Francia, Colombia, Messico, Brasile, Spagna.

Dei miei compagni dei lavoro di gruppo, di quelli che hanno avuto il coraggio di chiedermi gli appunti e di quelli che gli appunti invece me l’hanno passati.

Di quelli che ti coprono le spalle, ti aiutano, che se hai una difficoltà o un problema loro ci sono. E tu impari a fare lo stesso. A batterti per gli altri, a incoraggiarli. Per davvero.

Perché qui le emozioni sono sincere. Sono reali.
Qui ho capito che non serve partire con una valigia piena di cose per andare dall’altro lato del mondo. Che tanto quelle cose lì non ti aiuteranno quando dovrai trovare una casa, una moca italiana, un buon tipo di caffè. Quelle cose lì non ti aiuteranno quando sarai così lontana da non sentire più nulla, quando vorrai solo piangere, o urlare, o gridare. O ridere di gusto. Quelle cose lì non lo faranno. Ma i tuoi nuovi amici, si.

Pedro continua a guidare, mentre con una mano si accende una sigaretta. Perché qui sui taxi si può anche fumare.

Io continuo a pensare alla magia di questa città, in cui ciò che conta sono i rapporti che stringiamo, le persone che conosciamo, quelle con cui leghiamo. Quelle che scegliamo di far entrare nella nostra vita, e quelle che inspiegabilmente ci entrano. Sono queste persone a fare di Buenos Aires un luogo speciale.
Persone che ci fanno capire che ciò che importa davvero non è quello che abbiamo quando arriviamo, e che siamo prima di partire. Ma quello che troviamo lungo il cammino. Il noi che ci portiamo dentro. E che in questa città è pronto a cambiare. A crescere. A stupire e a stupirsi.

Certo, a volte non tutto ciò che si vede o si sente è come avremmo pensato, che avremmo voluto o sperato. A volte la nostra mente prende nuove strade, si comporta in un modo tutto suo.
Ma anche in questo caso, se ne può parlare in taxi, con Pedro. Con il tassametro che va avanti. E allora sentirlo pronunciare in tutta risposta un frase che non potrai scordare facilmente.

“È un posto per persone che si sono perse, perdidos pero no perdedores”, dice. E fa una pausa. Solenne.

La macchina svolta a destra, il vento entra forte dal finestrino e mi spettina i capelli. ” Buenos Aires è veramente bellissima” penso.
Poi sorrido. E sento gli occhi, i miei occhi, perdersi in un ghigno. E luccicare come i suoi.

 

Questo articolo è stato scritto da Lucrezia Villalta

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