“Generazione Erasmus”. Non sono mai stata un’amante delle etichette, ma devo riconoscere che ero affascinata da questa combinazione di parole. Un po’ perché si parlava della mia di generazione, un po’ perché sentivo di non farne parte e la cosa mi disturbava. Ma cosa mi frenava davvero, tanto da vincere persino l’attrazione che il fenomeno indubbiamente esercitava anche su di me? Semplicemente la paura. La paura di non essere all’altezza, la paura di sentirmi sola e senza riferimenti in una Babele ostile, la paura che a 20 anni non invidio chi non la prova. Perché diciamoci la verità, la vita da studente fuori sede è una grande prova, ma la rassicurazione di essere nella tua nazione, di sentire parlare la tua lingua, se sei fortunato di poter godere persino più o meno del tuo clima mediterraneo fornisce un velo di protezione che non c’è processo di integrazione europea o di globalizzazione che ancora possa sgualcire. Tuttavia arrivata quasi alla fine del mio percorso accademico, un po’ di sicurezza in più e la complicità di un’amica insostituibile sono stati il mix perfetto per convincermi a presentare la domanda. E in pochi mesi mi sono trovata catapultata tra procedure burocratiche (sì, questa è la parte peggiore, ma forse l’unica se tralasciamo la mancanza della cucina nostrana), email dell’Università di appartenenza e di quella di arrivo che erano una certezza maggiore delle chiamate quotidiane di mia madre, e dopo pochi mesi la mia esperienza internazionale ha avuto inizio. Utrecht. Utrecht è una bomboniera nel cuore dell’Olanda e oggi, al termine della mia esperienza, posso dire con certezza che non avrei potuto desiderare di meglio. La definiscono la “piccola Amsterdam”, ma non lo dite ai patriottici abitanti della città, che ne rivendicano l’importanza storica e culturale. Ricordo le prime passeggiate di fine agosto alla scoperta di quella che sarebbe stata la mia “casa” per i successivi cinque mesi, e più la esploravo più me ne innamoravo. I canali, i cafè dall’arredamento vintage popolati di gente concentrata sui propri laptop o con un semplice e più romantico libro in mano, le birre alle tre del pomeriggio, e nessun raggio di sole sprecato, ottima occasione per sedere all’aperto. Era una realtà così diversa, ma allo stesso tempo affascinante, che subito me ne sono sentita parte. Sorrido all’idea di una me incerta, con la mappa al cellulare e che impiegava il triplo del tempo per percorrere strade che ora mi sono più che familiari. Quelle strade hanno visto i miei occhi sgranati mentre scrutavo la città, hanno spiato le mie prime conversazioni internazionali con passanti di ventura e nuovi amici, hanno accolto i miei vecchi amici che sono venuti a trovarmi; ma soprattutto sono state “morbido” cuscino per le prime cadute mentre prendevo confidenza con la bici. Già, la bici è stata forse la mia più grande compagna d’avventura, in una nazione in cui fin dall’inizio ti avvisano che il primo step del processo di integrazione prevede procurarsi questo mezzo a due ruote. Domani mi separo dalla mia “amica”, e mi scopro sorprendentemente triste e nostalgica. O forse si inserisce tutto nel quadro del magone di dover chiudere questa esperienza. Studiare all’estero ti permette di sfruttare risorse che non credevi di avere, di sorprenderti quando pensavi non fosse più possibile, di crescere quando ormai sentivi che il processo era ultimato. E’ formativo da un punto di vista accademico, perché ti permette ti sperimentare un metodo di studio completamente diverso; ma è straordinariamente arricchente da un punto di vista umano. Utrecht è stata una citta perfetta, né troppo grande né troppo piccola, piena di studenti internazionali, che accorrono per il richiamo del prestigio della sua Università (che non si è smentita). Ma l’Olanda mi ha insegnato anche a gestire meglio il mio tempo, dagli olandesi impari quando è opportuno lavorare e quando divertirsi, impari che non è la pioggia o il maltempo che ti può fermare, impari che l’autista di un autobus va sempre salutato e ringraziato, ma, se non impari l’olandese, quello risulterà faticoso. Ma potrai essere davvero soddisfatto di te stesso se avrai imparato a fare frutto di tutto questo per conoscere meglio ti stesso, per metterti in discussione, senza paura di sbagliare, quella paura che a vent’anni, ragazzi, è bello avere. Per cui, se potete partite. Non definitevi generazione Erasmus, ma soltanto generazione intelligente e fortunata, che ha le opportunità e riesce a sfruttarle appieno.