L’epico scontro tra uno dei migliori pugili degli ultimi anni, Floyd Mayweather, e il miglior combattente delle Mixed Martial Arts, Conor McGregor, è stato al centro delle cronache degli sport da combattimento e dei social media per tutta l’estate. L’irlandese ha tenuto testa al campione americano in tutte le conferenze stampa tenute in preparazione del match, con insulti e atteggiamenti sopra le righe, che hanno ricordato a molti appassionati l’attitude di Mohammed Ali. Mayweather ha interpretato una parte ancor più difficile: con faccia bronzea e nervi di ferro ha recitato il ruolo dell’assassino silenzioso, del combattente che trattiene il proprio killer instinct per il momento più opportuno. Nell’ultima conferenza stampa, poi, durante il cerimoniale della pesata ufficiale, Mayweather ha reagito, facendo intendere che da quel momento in avanti non si sarebbe più scherzato. E nonostante questa splendida telenovela, il più grande problema della Money Fight è stato, però, la Fight stessa. Mayweather è stato scoperto nel tentativo di scommettere per un TKO (Technical Knock Out) a suo favore nel decimo round. Il match, nemmeno a dirlo, è terminato con un KO tecnico al decimo, che ha premiato il campionissimo americano, il quale ha così superato le 49 vittorie di Rocky Marciano, raggiungendo un (quasi) irripetibile record di 50-0-0. Però, come più volte annunciato da un esperto combattente italiano, Alessio Sakara, sui social media, la Money Fight era solamente una grandissima operazione pubblicitaria, dove l’agonismo lasciava spazio alla spettacolarizzazione dei due sport che si intendeva promuovere. La boxe, infatti, sta vivendo un periodo di profonda crisi ed è assai probabile che le diverse sigle del pugilato mondiale (WBO, WBA, IBF, WBC, e altre) abbiano spinto il loro miglior pugile, ormai prossimo al ritiro, ad offrire un grandioso “canto del cigno”, in modo da promuovere la disciplina con un’enorme manifestazione mediatica. La MMA, la cui massima espressione è la UFC di Dana White, ha cercato di fare lo stesso, chiedendo a McGregor di salire sul ring contro il più grande peso welter degli ultimi tempi, in una disciplina che l’irlandese non aveva mai praticato. Infatti, la crisi nel mercato delle MMA ha costretto Dana White a vendere nel 2016 la UFC a WME/IMG per una cifra di circa quattro miliardi di dollari. Il problema, come già detto, risiedeva nel match: chiunque abbia mai praticato arti marziali (come sostiene Sakara), sa bene che, in un incontro di boxe “serio”, McGregor sarebbe dovuto durare poco più di tre o quattro round. Per il bene dello spettacolo, però, il match è stato portato fino all’ultimo round, quando Mayweather ha finalmente vinto, con una serie di colpi che ha quasi fatto perdere i sensi al giovane campione irlandese. Il nostro editoriale, però, non si accontenta di questa risposta preconfezionata. Il match non può essere stato un fiasco solamente a causa della condotta dei due atleti, volta allo spettacolo più che all’agonismo. Il match, inoltre, non è avvenuto prima che la UFC entrasse in crisi e che le sigle della boxe annunciassero, annualmente, “il match del secolo”, cercando di riconquistare consensi tra gli appassionati di sport. La Money Fight non è stata la causa della debacle di questi sport, ma è stata un tentativo di rilancio, una possibile cura. Noi, però, vogliamo capire quale sia la malattia. E per comprendere quale sia il problema principale di queste discipline dobbiamo porci una domanda cruciale: i combattimenti stanno distruggendo gli sport da combattimento? Per rispondere a questo quesito, dobbiamo allontanarci dall’agonismo e spostarci verso il cosiddetto “Sport Entertainment”, ovvero il Pro-Wrestling. Come noto, il pro-wrestling è uno sport incentrato all’intrattenimento del pubblico, dove i match, i promo, i discorsi e le faide seguono un copione prestabilito che è votato all’offrire un prodotto divertente e di alto interesse, cercando di essere il più catchy possibile. Per esprimere questo concetto con qualche dato reale, potremmo ricordare ad esempio che il pro-wrestler John Cena, tramite il programma di beneficenza Make-a-Wish, ha esaudito ben 500 desideri, mentre il secondo in classifica, il cantante americano Justin Bieber, ne ha esauditi all’incirca 300. Nei primi cinque posti di questa speciale classifica dei benefattori, poi, troviamo un altro pro-wrestler, Hulk Hogan. Inoltre, la WWE, la più importante compagnia di pro-wrestling nel mondo, è tra le prime cento fan-page di Facebook e tra le prime dieci in assoluto nel mondo dello sport. I suoi eventi sono sempre top trend su Twitter e Wrestlemania è il secondo evento sportivo più seguito nel mondo dopo il Superbowl, raggiungendo circa 650 milioni di case in tutto il mondo, trasmettendo in venticinque lingue in più di 180 Paesi. Eppure, la stessa WWE ha vissuto alcuni momenti di crisi. Il primo dopo la tragedia della famiglia Benoit (il padre, pro-wrestler di fama mondiale, ha ucciso la moglie e il figlio malato e, poi, si è tolto la vita), il secondo dopo Wrestlemania XXX, quando le azioni sono crollate fino a quota 11 dollari (mentre erano a 30 a metà marzo). Cosa ha causato questo scivolone del titolo? Incredibile a dirsi, il wrestling. Il prodotto offerto dalla WWE è cambiato continuamente nel tempo e, oggi, è classificato in America come PG, ovvero come programma adatto ai bambini accompagnati dai genitori. La WWE ha infatti eliminato la possibilità di eseguire alcune mosse “violente” e ridotto al minimo la presenza di sangue nei propri show. Questo nuovo prodotto family-friendly è riuscito a riconquistare la schiera di appassionati che si preoccupavano per l’influenza che un tale spettacolo potesse avere sui più giovani. E tornando agli sport da combattimento agonistici, essi sono in crisi perché non possono modificare il prodotto che offrono, non possono ridurre la presenza di sangue, non possono decidere a tavolino quale atleta dovrà vincere, non possono, semplicemente, trasformarsi in una sorta di pro-wrestling più aggressivo, poiché lo stesso pro-wrestling non ha successo quando punta su un pubblico più “maturo”. Quindi possiamo affermare che, effettivamente, i combattimenti stanno distruggendo gli sport da combattimento. E questo paradosso è figlio di un passato oscuro, è il continuum di una fabula che si è macchiata dei dubbi e dei sospetti che hanno accompagnato campionissimi del calibro di Sonny Linston. La boxe è stata tenuta in vita grazie a Mohammed Ali e Mike Tyson, Sugar Ray Robinson e Roberto Duràn, ma con Mayweather (un peso welter) non è riuscita a riscuotere la stessa attrattiva. Similmente, la UFC ha vissuto una seconda giovinezza con McGregor, ma il campione irlandese non può tenere in vita un intero sport con le proprie sole forze. La verità è che il pubblico, negli anni, è cambiato. In passato vi era una popolazione che aveva vissuto gli orrori delle guerre e, per questo, odiato il potere sovrumano delle armi. Una popolazione che adorava gli uomini che avevano la forza di lottare con le proprie mani per il titolo di campione del mondo e che puntava la sveglia alle tre di notte per seguire i match più affascinanti. Oggi, invece, la lotta ha cessato di esercitare il suo fascino sulle nuove generazioni, che fortunatamente non hanno mai dovuto (e speriamo mai dovranno) sferrare un colpo contro qualcuno. Il combattimento è visto come uno sport violento e “pericoloso”. Vedendo un match di boxe o uno di MMA non si può assistere a un promo che recita “Do Not Try This At Home” (“Non provateci a casa”), come accade invece in ogni programma di pro-wrestling. Boxe e MMA sono sport veri, praticati da sportivi che non possono certo “non provarli a casa”. Il pro-wrestling è puro intrattenimento per un pubblico assai diverso, più affascinato dal lato spettacolare che da quello agonistico, che vive spesso lo scontro con il semplice preconcetto di Bene contro Male. Il pericolo di imitazione è forse uno dei problemi più grandi di queste discipline, nonché un limite strutturale allo sviluppo e alla crescita di questi sport. La Money Fight, la più grande esibizione a scopo pubblicitario nella storia degli sport da combattimento, intendeva essere una cura per la malattia che affligge tali sport, ma si è trasformata in un inutile placebo, che ha infastidito la nicchia dei più accaniti appassionati e che rischia di aver definitivamente allontanato i pochi curiosi che si stavano avvicinando a queste discipline. Gli sport da combattimento sono stati distrutti dagli stessi combattimenti, ma questo paradosso ci potrebbe far comprendere come l’umanità abbia cambiato le proprie prospettive e la propria moralità, scoraggiando le manifestazioni della nostra ancestrale bestialità e promuovendo modelli di intrattenimento meno “estremi” e più family-friendly. Sembrerebbe, quindi, che non tutto il male venga per nuocere in questa società e, da appassionati di sport, possiamo solo chiederci invano quale sia il futuro della nobile arte e delle sue sorelle, in questo mondo che è oggi così pulito e pacifico, o che almeno come tale ossessivamente desidera apparire.