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Il 2017 verrà ricordato come un anno buio e fallimentare per lo sport italiano, caratterizzato da pochi acuti positivi e troppe sgradite stecche. L’Italia ha fallito totalmente ai mondiali di atletica ed è crollata nel calcio, nella pallacanestro, nel tennis e nel rugby.

Il “naufragare” – che non è affatto dolce come quello leopardiano –  spinge il movimento sportivo italiano di fronte a un bivio: da una parte vi sono i possibili cambiamenti strutturali già paventati dal presidente del CONI Giovanni Malagò, dall’altra la strada del “laissez faire”, rischiosa, ma comunque percorribile. Alla base di questa scelta vi devono essere considerazioni profonde, che mostrino quale sia il progetto a lungo termine e la vision del nostro Comitato Olimpico. Servono regole nuove e audaci, servono obblighi e limitazioni, servono raffronti con altri sistemi e, soprattutto, serve un lavoro trasversale per cambiare la mentalità del nostro paese.

In Italia, infatti, si predispone l’atleta alla vittoria o, nel momento in cui essa non sia raggiungibile, a un piazzamento decoroso. Questa mentalità si riflette negativamente nell’approccio degli atleti alle competizioni, tanto nelle gare individuali che nelle kermesse di squadra.

Partiamo dal calcio. Elevato oramai a sport nazionale, il calcio è lo sport più praticato e seguito nel nostro paese. A livello nazionale, però, il nostro movimento non riesce ad esprimere una valida competizione nella massima serie, divenuta monopolio delle tre squadre più titolate: Juventus, Milan e Inter. Questo conduce a una perdita di attrattiva nei confronti delle emittenti straniere, che si rivolgono a campionati come La Liga o la Premier League, divenute l’epicentro del calcio mondiale. Eppure vi fu un tempo in cui Zico giocava nell’Udinese e il Verona vinceva lo Scudetto. Cosa è cambiato?

Sono entrati in gioco i diritti televisivi. In Italia, infatti, essi sono distribuiti in maniera ineguale (si danno più soldi alle squadre che vantano il maggior numero di tifosi), portando il calcio italiano a una progressiva polarizzazione: in pratica, ci siamo assicurati che nel nostro paese non si possa assistere a un “miracolo Leicester”. Aggiungiamo a questo la mancanza di fondi, le strutture fatiscenti, la violenza negli stadi (anche in categorie minori) ed ecco che la situazione si presenta prossima ormai al collasso. Un collasso che ci ha portato, in campo internazionale, a conquistare negli ultimi sedici anni solamente tre Champions League e il Mondiale del 2006, seguiti da un disastro senza precedenti, con una finale persa per 4-0 contro la Spagna nel 2012 (Spagna che ora ci condanna ai playoff per raggiungere i Mondiali di Russia 2018). Il calcio giovanile è allo stesso modo in un periodo critico. Negli ultimi dieci anni i vivai delle principali squadre italiane si sono riconvertiti a vetrine di giovani talenti stranieri, tagliando le gambe al futuro del movimento. Il calcio femminile, poi, soffre tuttora dei meri pregiudizi diffusi in tutta la penisola, relegandolo a sport minore, privo di fondi e di interesse. Solamente negli ultimi due anni, infatti, si è diffusa una cultura di apertura nei confronti delle donne e, con essa, una regola che impone alle squadre più importanti di aprire e sostenere una sezione femminile. I risultati di questa nuova apertura, però, saranno percepibili e valutabili solo nel prossimo decennio.

Il disastro vero e proprio, però, è avvenuto al Mondiale di atletica di Londra. Un disastro che ha gettato l’intero movimento sull’orlo del baratro: nessuno dei nostri atleti si è qualificato per una finale, in nessuna delle discipline proposte. La sola medaglia è il bronzo arrivato da Antonella Palmisano nella 20 km di marcia. Questo completo fallimento arriva al culmine di un decennio che, seppur sfortunato, ha portato l’Italia a mancare clamorosamente il necessario cambio generazionale. Si pensi che ai giochi di Atene 2004 l’Italia uscì con due ori e un bronzo (quello eroico di Gibilisco), parzialmente confermati dall’oro nella 50 km di marcia di Alex Schwarzer e dal bronzo nella 20 km di Elisa Rigaudo a Pechino 2008. La scuola del fondo e del mezzofondo, quindi, resta comunque tra le eccellenze sportive italiane, ed è l’unica che ha prodotto un parco atleti competitivo per il Mondiale. Inoltre, il fallimento di Londra ha portato gravi conseguenze all’interno della FIDAL, con un’ampia parte dei delegati che ha affidato ai giornali sportivi nazionali i propri malumori nei confronti del presidente Alfio Giomi, che ha replicato dal sito federale affermando che “[…] è difficile dare un giudizio unico per tutti, ci sono stati picchi verso l’alto e verso il basso in particolare nell’atteggiamento agonistico e nell’approccio alla gara. C’è chi si è accontentato di essere qui, e questo non è accettabile”. Onestamente, dopo questo disastroso Mondiale, giocare allo scaricabarile non è più accettabile.

Passiamo al basket. “Quando vidi la prima partita della Nazionale nella quale giocavano assieme Belinelli, Bargnani, Gallinari, Datome, Aradori e tutti gli altri, mi dissi che quella Nazionale, fosse andata male, avrebbe portato a casa almeno una medaglia”, così Flavio Tranquillo, voce della pallacanestro italiana, ha commentato malinconicamente l’eliminazione nei quarti dell’Europeo per mano della Serbia. Gallinari fuori per un infortunio rimediato in un’amichevole di preparazione cercando di tirare un pugno ad un olandese, Bargnani ormai fuori dal giro della Nazionale, Belinelli all’ultimo torneo con gli Azzurri: la Nazionale “da medaglia” si è sgretolata senza aver conquistato nulla, nemmeno la partecipazione a Rio 2016 attraverso un torneo di qualificazione giocato in casa. Riusciamo a costruire talenti, ma non squadre competitive. Il problema potrebbe essere la mancanza di importanti risorse fisiche (“I due metri e venti non crescono molto spesso in Italia”, come ha affermato Davide Pessina ai microfoni di Sky Sport), oppure di un movimento che non riesce ad esprimere compagini competitive sul piano europeo, dominato dai greci, dai russi e dagli spagnoli. La palla a spicchi, purtroppo, non sta vivendo un momento felice nel nostro paese, ma si dovrebbe cercare di rilanciare questo sport a livello nazionale, perché l’Italia può e deve essere all’altezza della Slovenia campione d’Europa.

Passando al tennis, dopo gli acuti della Schiavone e della Pennetta, il movimento è tornato a sprofondare nell’anonimato e, onestamente, non si comprende se sia un problema di infrastrutture (la scuola italiana è prevalentemente terraiola), di preparazione fisica (difficoltà ingenti nei match dalla lunga durata) o di preparazione mentale (nikofobia o una trasversale percezione di inadeguatezza). I nostri giocatori sbagliano strategie, tempistiche e, soprattutto, scelte. Nel rettangolo di gioco bisogna essere pronti e reattivi ad ogni cambiamento e, oggi, sembra che i nostri atleti siano dominati da una velocità monotonale e da una diffusa epidemia da “braccino”: palle corte a rete, palle veloci che finiscono out, doppi falli. Il dato degli unforced errors condanna il nostro movimento a posizioni di ranking troppo basse per i valori che potrebbero esprimere i nostri giocatori.

Infine, il nostro rugby, che sembra essere tornato al periodo dei primi anni ’90 e che, oggi, è vittima un sentimento che vorrebbe l’Italia esclusa dal Sei Nazioni. Una “manifesta inferiorità” che punge nell’orgoglio gli eroi che conquistarono con fatica il posizionamento dell’Italia nell’olimpo del rugby. Dal 2000, però, la nostra Nazionale ha faticato a vincere anche una sola partita nel Sei Nazioni, guadagnando continui “cucchiai di legno” (con tutte le attenuanti del caso, è comunque un risultato imbarazzante). Inoltre, non è mai riuscita a qualificarsi per i quarti di finale del Mondiale. Nel rugby non è un problema di mentalità, ma di promozione del movimento. Essere “sport di nicchia” non vuol dire non poter avere un vivaio variegato ed eterogeneo. I regionalismi che affliggono il movimento rugbistico (Veneto e Lombardia detengono questo duopolio) hanno portato l’Italia alla difficile situazione attuale, riportando gli orologi del nostro rugby indietro di venticinque anni.

Il golf, parlando di “sport di nicchia”, ha avuto un exploit con Manassero e i fratelli Molinaro, ed è stato capace di cavalcare l’onda di questo inaspettato successo. Il 2017 ci ha regalato notevoli speranze per il futuro, avendo allargato gli orizzonti del nostro golf con l’ingresso di altri professionisti altamente competitivi. Continuando con le note positive di questo 2017 non si può tralasciare lo sport che, da sempre, regala più soddisfazioni allo sport italiano: la scherma. Undici medaglie all’ultimo Europeo, confermando le nove conquistate al Mondiale. Un 2017 trionfante, che porta i nostri schermidori ad essere i numeri uno del panorama mondiale.

L’Italia del nuoto, poi, è viva più che mai e al mondiale di Budapest si è piazzata sesta nel medagliere. Un risultato che esalta lo sport italiano con 16 medaglie di cui 4 ori, con un record che rimarrà negli annali del nuoto tricolore. La pallavolo, invece, ha avuto solo una battuta d’arresto dovuta allo shoegate che ha coinvolto il nostro miglior giocatore, Ivan Zaytsev. Lo Zar ha rifiutato di indossare le scarpe del main sponsor italiano, ottenendo per questo l’esclusione dalla selezione Mondiale, ma l’opinione degli esperti, ovviamente, si è schierata a favore di Zaytsev, suggerendo che si potesse affrontare la questione in maniera più diplomatica.

Nelle due e quattro ruote, poi, come non citare le ottime prestazioni di Nibali e Aru, la cavalcata di Dovizioso e della Ducati o la rincorsa delle Ferrari in Formula Uno. Prestazioni grintose che seguono il trend di altri sport, come quelli sostenuti dalla FIJLKAM, che sta lavorando ottimamente con le arti marziali, avendo un ottimo seguito e una notevole pubblicità grazie ai risultati delle ultime Olimpiadi. Non solo, anche il nostro pugilato sta vivendo una seconda giovinezza e la vecchia guardia, che ci ha regalato medaglie e soddisfazioni negli ultimi sedici anni, sembra essersi messa a disposizione della crescita di futuri prospetti. Infine, dobbiamo sottolineare come l’Italia punti sugli sport invernali per confermare il risultato di Sochi e, se possibile, migliorare i piazzamenti degli atleti di seconda fascia.

Voglio sottolineare, a questo punto, che l’intenzione di chi scrive, con questo articolo, è quella di incentivare un dialogo costruttivo sulle problematiche principali dello sport nel nostro paese, esaltando i risultati positivi e cercando di proporre soluzioni per le debacle che nello sport, va ricordato, possono sempre accadere.

Per questo j’accuse la mentalità corrotta dalla chimera della vittoria, la fatua vacuità di un approccio incentrato verso il piazzamento e la subdola percezione che una medaglia abbia più importanza di una prestazione valorosa. J’accuse le scuole calcio che spingono i bambini a cercare la vittoria più che il divertimento, le giovanili che schierano squadre fortissime ma con pochissimi italiani e la nostra Nazionale che, a fronte di più di un milione di tesserati, presenta fino a tre oriundi tra i ventitré convocabili nelle maggiori competizioni internazionali.

Andrés Iniesta ha recentemente definito in questo modo la differenza tra la scuola spagnola e la scuola italiana: “In Spagna, quando un bambino torna a casa dopo una partita, i genitori chiedono se abbia giocato bene. In Italia, invece, gli chiedono se abbia vinto. La differenza sta tutta qui. C’è chi ha la cultura del gioco, chi l’ossessione della vittoria. Per questo nell’ultimo decennio siamo sempre noi i protagonisti e non solo in Nazionale”.

Le parole del calciatore catalano possono essere estese a tutto lo sport italiano e, proprio per questo, serve un cambio di mentalità. Non si può e, soprattutto, non si deve chiedere a un bambino di vincere, di primeggiare, ma si deve sostenere la sua passione e le sue aspirazioni, fargli scoprire nuovi punti di forza anche nelle sconfitte e aiutarlo a maturare attraverso le delusioni difendendo la prestazione offerta e i valori stessi dello sport.

Per questo, in conclusione, mi auguro che il 2018 sia un anno di grandi soddisfazioni per lo sport italiano. La mentalità italiana deve per questo riportare il proprio focus sull’etica e sulla morale, nonché sull’ampio range di valori che lo sport può e deve insegnare ad ognuno di noi.