Negli ultimi mesi è in corso una polemica che coinvolge ogni forma d’arte, dalla moda alla musica: stiamo parlando della “cultural appropiation”. Non è facile dare una definizione del termine: la professoressa Susan Scafidi che insegna legge alla Fordham university di New York l’ha definita così: “Appropriarsi della proprietà intellettuale, delle conoscenze tradizionali, delle espressioni culturali , o manufatti dalla cultura di qualcun altro senza permesso. Questo può includere l’uso non autorizzato di una danza di un’altra cultura, di un abito, della musica, della lingua, del folklore , della cucina , della medicina tradizionale ecc. E ‘ più dannoso quando la comunità di origine è un gruppo minoritario che è stato oppresso o sfruttato o quando l’oggetto di appropriazione è particolarmente sensibile, come ad esempio oggetti sacri”. Il tema dell’appropriazione culturale abbraccia ogni continente. Per quanto riguarda l’Africa, a creare la polemica, è stata la sfilata di Marc Jacobs SS 2015: i modelli e le modelle avevano una particolare acconciatura che ricreava i “bantu knots”, una pettinatura indossata per secoli dalla tribù Zulu in Sud Africa. Dopo la sfilata, è stato pubblicato un tutorial chiamato “How to: twisted mini buns inspired by Marc Jacobs’ show” in cui si spiegava come realizzare l’acconciatura definita però “mini buns” ossia piccolo chignon, senza dare credito alle sue vere origini. Il web si è indignato davanti a quest’appropriazione culturale, le ragazze afroamericane che sono solite utilizzare questa tipica acconciatura – parte della loro cultura da secoli – si sono fotografate, creando anche un apposito hashtag su Instagram #ITaughtMarcJacobs cercando di sensibilizzare lo stilista e l’intero mondo della moda su questo “furto culturale”. La stessa polemica ha colpito la collezione di Givenchy AW 2015: stavolta l’appropriazione culturale viene dal sud America e riguarda le “Chola”. Il significato del termine “Chola” ha avuto un’evoluzione rispetto al 1800 quando veniva usato per identificare coloro che hanno origini latino-americane e fu poi usato per riferirsi agli immigrati messicani fino a quando è stato adottato per definire le ragazze delle bande Latinos negli anni ’70. Le ragazze “Chola” hanno uno stile ben definito, capelli curati detti “baby girl” spesso con trecce e appunto riccioli da bambina sulla fronte, sopracciglia disegnate con la matita e labbra scure. Riccardo Tisci, direttore creativo della maison francese alla domanda: “Da dove viene l’ispirazione per questo look?” ha risposto cosi: “Le ragazze della mia collezione rappresentano una “Chola vittoriana”, lei è il capo della gang”. La collezione è stata ampiamente apprezzata e considerata come un omaggio da parte di Tisci alla sub-cultura giovanile. Ma la maggior parte della stampa ha ignorato il vero significato del termine “Chola” e quello che rappresenta: i sostenitori della “cultural appropiation” hanno definito la collezione un insulto alla cultura latino-americana, anche perché di tutte le modelle che hanno sfilato durante lo show, solo Joan Smalls era l’unica con origini latino-americane ed inoltre il termine “vittoriano” accostato alla parola “chola” è stato utilizzato – sempre secondo i sostenitori della polemica – per “sbiancare” il riferimento ad una cultura prevalentemente appartenete agli immigrati del sud America. Ma Tisci non è stato il solo a prendere ispirazione dal mondo delle “Chola”: numerose pop star – da Lana del Rey a Gwen Stefani, da Nicki Minaj a Fergie – hanno attinto dallo stile delle Chola girls. Gwen Stefani, in particolare, è una veterana dello stile ” chola glamour” come si può vedere nel suo video Luxurious del 2004. Più recentemente – e sempre dal mondo della musica – arriva l’ultima polemica legata alla “cultural appropiation”. Questa volta siamo in India e gli autori sono Beyoncè e Chris Martin, leader della band inglese Coldplay. Il video del loro ultimo singolo, “Hymn for the weekend”, è stato girato a Mumbai ed è un tripudio di colori e cultura indiana. Beyoncè canta con il tipico look indiano, con bindi e gioielli sul viso e mehndi (tatuaggi all’henné naturale rosso usati in Oriente come rito benaugurante) sulle mani, mentre Martin percorre le strade della città circondato da bambini che lo rincorrono. Il video è stato accusato di “cultural appropiation” per l’eccesivo utilizzo dei simboli della cultura indiana stereotipati. Ma c’è una linea davvero sottilissima tra l’appropriazione culturale e l’apprezzamento culturale. Il mondo della moda da sempre rende omaggio alle sottoculture: basti pensare a Vivienne Westwood che nell’Inghilterra degli anni ’70 di Margareth Thatcher portò il punk – sottocultura per eccellenza – a sfilare sulle passerelle, eppure nessuno l’accusò di “cultural appropiation”. Ogni forma d’arte, che sia la moda o la musica, spesso tende a utilizzare elementi provenienti da culture differenti, provenienti da contesti culturali difformi, cercando di unirli per creare qualcosa di nuovo e innovativo. La polemica, a mio parere, è sterile: finché la cultura viene omaggiata con rispetto, che sia sulle passerelle, sul grande schermo o nelle radio – dando ovviamente credito alle sue reali origini – non credo ci sia differenza tra ispirazione e appropriazione, perché essere aperti, curiosi, conoscere e onorare altre culture trascende dall’appropriarsene senza rispettarle.
Lifestyle6 settembre 2016 Sonia Rykiel, la «Reine du tricot» Storia della stilista morta il 25 Agosto scorso a 86 anni.