Uno fieramente americano, l’altro il più grande scrittore di tutti i tempi in lingua inglese e, forse, anche in qualsiasi altra lingua. Ernest Hemingway usava un linguaggio semplice, paratattico e moderno, del quale, peraltro, andava molto fiero. A questa fierezza sembra dare una piena giustificazione – una ragione di esistere- il successo dei suoi romanzi e dei suoi racconti, che tra non molto avranno superato la “prova del secolo”, ossia la soglia oltre la quale un “classico del 900” diventa semplicemente un grande classico, e viceversa. William Shakespeare ha utilizzato più di 20.000 parole in una vita passata tra sonetti, commedie e tragedie, il tutto –bisogna dirlo- di somma bellezza. Tanto per farci un’idea della straordinarietà di questo dato: Dante Alighieri, pur avendo a disposizione una lingua che, almeno in parte, stava contribuendo ad inventare, si era fermato, quattro secoli prima del “cigno di Stratford”, a “sole” 8.000 parole. Sembrerebbe che, a parte il fatto di essere entrambi scrittori anglosassoni, di lingua inglese – il che, parlando di letteratura, sarebbe già qualcosa- i due siano come due universi paralleli, due mondi che si ignorano, distanti nel tempo e nello spazio, del tutto autonomi ed incompatibili, e quindi incomparabili. Uno è stato tra i personaggi più conosciuti ed influenti del XX secolo, dotato di una personalità forte che si innamorava e faceva innamorare e che, ancora in vita, sfatando l’orrendo clichè dello scrittore rivalutato soltanto dopo la morte, aveva raggiunto una fama da Divo di Hollywood; pescatore efficace, esperto cacciatore – di leoni, giraffe e rinoceronti, oltre che di anatre e di beccacce- , avventuriero, a tratti controverso e professatore del coraggio come di una religione. Dell’altro, oltre alle opere alle quali, visto il grande numero e la complessità, sembra avere dedicato l’intera esistenza, non ci resta che qualche ritratto ed alcuni dubbi – discutibili- sulla sua reale identità. William Shakespeare è al tempo stesso più e meno di un uomo, un aggettivo – “shakespeariano”-, una figura evanescente di cui il poco che sappiamo è interessante soltanto nella misura in cui ne fa un mistero, un enigma di rara bellezza, insensibile allo scorrere del tempo attraverso i secoli ed impossibile da dimenticare, come la Verità. Se diamo per vero quanto detto finora, che la vita e le opere dei due scrittori corrono parallele non per una certa affinità – come a volte pure accade-, ma a causa di una profonda diversità, potrete immaginare la mia grande sorpresa quando, leggendo “Di là del fiume e tra gli alberi” – opera del 1950, quando lo stesso autore era vicino alla morte, prima bistrattata e disconosciuta da pubblico e critica e poi riscoperta e rivalutata alla stregua di un capolavoro piccolo e raffinato- mi è sembrato di riconoscere un omaggio tenero e riservato, un regalo che un amico – Hemingway- decide di fare ad un altro amico – Shakespeare- , senza aspettarsi nulla in cambio. Mi perdonerete l’entusiasmo di quando, continuando a riflettere su una propria impressione, ci si sorprende a trovarla sempre più verosimile ed una cosa che prima ci sembrava impossibile diventa possibile, persino probabile. I fattori, che sono più o meno convincenti, e che mi hanno portato a valutare questo tipo di possibilità , sono almeno quattro : innanzitutto, le tematiche trattate e le riflessioni proposte che, nascendo da uno sviluppo della trama che sembra quasi sempre soltanto un pretesto al servizio della speculazione, raccontano di temi universali quali la guerra, l’amore e, soprattutto, la morte; poi, una certa unità di luogo, di tempo e di spazio che, fin dai tempi della tragedia greca, è tipica del teatro; Naturalmente, l’ambientazione: la stessa Venezia dove si svolge l’intera azione- o alcune sue parti- di varie opere della produzione shakespeariana, “Otello” ed il “Mercante di Venezia” tra tutte; Infine, la natura e la lunghezza dei dialoghi che, come in Shakespeare, sono intensi e di una lunghezza tale che finiscono per costituire una parte importante della trama e del suo svolgimento. Un punto in più per Hemingway, dunque, che costruisce ponti tra epoche e generi letterari senza nemmeno farsi scoprire, e che ci lascia un romanzo che ha tanto più valore in quanto rimane un capolavoro nonostante il tono naif ed una certa vacuità, sempre che in letteratura, in virtù dell’autonomia di cui l’arte gode nei confronti della realtà, questi siano ancora dei difetti.