Cosa ha funzionato e cosa no nel 2015 dell’ecosistema startup italiano

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Il 2015 è stato un anno di grande maturazione per tutto l’ecosistema italiano delle startup. Sebbene infatti il gap con gli altri paesi europei rimanga importante, tanti rimangono i segnali positivi di un ambiente che sta acquisendo una sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo all’interno dell’economia nazionale.
Il 2015 è stato l’anno in cui si è sfondato il numero delle 5.000 startup innovative registrate. L’aumento delle imprese innovative è solo un tassello di un puzzle più ampio ma ben rappresenta l’accelerazione che tutto l’ecosistema sta vivendo.
Una delle novità più importanti degli ultimi 12 mesi è certamente quella di Invitalia Ventures: per la prima volta viene creato un fondo pubblico (con una dote di ben 50 milioni) destinato proprio agli investimenti in startup. L’idea di creare delle sinergie tra pubblico e privato per abbassare il rischio degli investimenti è centrale per lo sviluppo per settore perché va ad aggredire uno dei problemi strutturali del nostro sistema, ovvero la carenza di venture capital. I numeri fotografano chiaramente la situazione: il VC italiano è un ottavo di quello tedesco e francese, un quinto di quello inglese e la metà di quello spagnolo.
Attualmente la difficoltà a reperire capitali non riguarda i finanziamenti di piccola o media dimensione (fino a pochi anni fa anch’essi complicatissimi), ma i cosiddetti “Series A rounds”, ovvero gli aumenti di capitale superiori al milione di euro. Anche su questo fronte, però, si sono registrati dei miglioramenti evidenti: MoneyFarm (16 milioni), DoveConviene (10 milioni), Musement (5 milioni) e Satispay (3 milioni) sono alcune delle realtà che sono riuscite a invertire la tendenza e che adesso puntano ai mercati esteri.
Quello che ancora sembra mancare è il mercato delle “exit”, vale a dire l’acquisizione delle startup da parte dei grandi gruppi nazionali e internazionali. Il problema riguarda non solo i fondatori delle giovani imprese ma anche gli investitori che hanno scommesso su di loro: chi investirebbe mai in un progetto che seppur di valore non diventerà mai effettivamente profitto? L’Italia, posizionata solo al 17esimo posto nel ranking di CB Insights per numero di exit concluse, rimane un mercato ancora acerbo da questo punto di vista e ancora lontanissimo dalle dinamiche delle economie più vivaci, con gli Stati Uniti in testa.
Il 2015 è stato anche l’anno dei riconoscimenti a livello internazionale per tanti attori del panorama italiano, con ben 3 incubatori italiani inclusi nella Top 10 dei ranking UbiGlobal ma anche con l’ammissione di startup nostrane nei programmi di accelerazione tra i più prestigiosi al mondo come nel caso di Cocontest a 500Startups.
Il 2015 non è stato l’anno della rivoluzione digitale che tanto servirebbe a questo Paese e non è stato neanche l’anno della definitiva esplosione del fenomeno delle startup al di qua delle Alpi, ma è stato importante perché per la prima volta sembra essere stata tracciata la strada da seguire nel futuro. Abbiamo bisogno di più imprenditori, più investitori e più gruppi industriali attenti a questi fenomeni, ma finalmente abbiamo strutture e competenze adatte a fare il grande passo e proiettarci nella competizione con Londra, Parigi e Berlino. A differenza di questi grandi hub europei dell’innovazione, l’Italia sta sviluppando il proprio tessuto intorno a due città, Roma e Milano, a cui si aggiunge la rete produttiva del Nord Est, sempre più avviato sulla strada dell’industria 4.0. Il 2016 non potrà che essere l’anno in cui mettere in connessione tutte queste realtà dalle enormi potenzialità innovative e riuscire a realizzare la nostra rivoluzione digitale.