Beethoven e l’Intifada

Non chiamate in causa la musica per nobilitare la politica, per favore

Beethoven

“A Beethoven la politica stava a cuore…” 

Talmente a cuore che avrebbe accettato di buon grado che il suo quinto concerto per pianoforte ed orchestra, l’Imperatore, cambiasse nome per diventare l’inno di battaglia dell’Intifada. Parola di John Berger, “uno dei più importanti intellettuali europei”, che citato su Internazionale del 23 ottobre ha l’ardire di affermare che è giusto dedicare ai combattenti palestinesi questa meraviglia prodotta da uno dei più grandi geni che siano mai appartenuti al genere umano, perché “evoca una felicità senza limiti che non possiamo possedere”. Sostiene Berger che da oggi in poi il concerto dovrebbe essere intitolato “concerto per pianoforte e orchestra n.5, l’Intifada”.

Senza entrare nel merito della questione israelo-palestinese, o della linea politica (nonché della spocchia al caviale) di Internazionale, la questione più stringente è un’altra. A Beethoven la politica non stava a cuore, come afferma il nostro luminare. Nonostante Berger, per avvalorare la sua tesi, affermi che Beethoven aveva dedicato la terza sinfonia a Napoleone per ideali politici, dice il falso, o quantomeno esagera. Beethoven era sì imbevuto dei fermenti rivoluzionari che attraversavano l’Europa all’alba delle imprese del Bonaparte, ma era soprattutto animato da un sincero idealismo romantico che è stato bussola per tutta la sua vita. Beethoven vedeva in Napoleone una manifestazione dello spirito assoluto, ben prima di un martire per i diritti politici. Era mosso da una fiducia resa commovente dagli sviluppi della sua malattia, nella spiritualità e nel genere umano muovevano i suoi gesti, verso un’unione che è tutto ciò che la politica non fa, per definizione. Basti pensare che la sua nona sinfonia, quella dell’Inno alla Gioia, era stata concepita, nel suo essere opera d’arte totale, come un abbraccio al mondo intero.

Neppure il rapporto del maestro di Bonn con i “politici di professione” era dei migliori. C’è un aneddoto significativo di questo suo atteggiamento quantomeno distaccato nei confronti della politica, raccontato da Bettina Brentano, poetessa a lui contemporanea. Pare che Beethoven stesse a passeggio per Vienna con l’amico Goethe, al tempo funzionario governativo nello stato di Weimar, e che questi al passaggio del corteo Imperiale si fosse genuflesso in modo quasi servile, mentre Beethoven era passato oltre senza neppure togliersi le mani dalle tasche. Passato il corteo, Beethoven si sarebbe rivolto con disprezzo verso Goethe dicendo “Lei sarà anche un grand’uomo, ma quelli là li ha ossequiati troppo”. Di aneddoti simili è piena la vita dell’autore della Sonata Waldstein, anche se basta questo a smontare la tesi per cui la politica sarebbe stata a cuore ad una mente tanto nobile. Ma il punto non è neppure questo, e non occorre accanirsi contro Berger, ma contro la leggerezza con cui questo intellettuale ha attribuito una propria volontà politica ad un’opera d’Arte. Non si tratta solamente di capire quale nesso abbia il concerto Imperatore con le violenze del Checkpoint di Ramallah, ma che cosa abbia da spartire il senso universale della musica – della musica orchestrale poi! – con il bieco particolarismo di una singola questione politica.

Offrire una composizione, un’opera d’arte in pasto alla caducità di un singolo proposito politico o sociale, per quanto nobile possa apparire, significa distruggere l’indipendenza della creazione artistica. Non necessariamente per seguire un gusto estetizzante o decadente, non è questione di far “l’art pour l’art”. Si tratta piuttosto di una necessità più profonda, di preservare il respiro universale dell’espressione artistica, svincolato da una qualsivoglia causa e dagli accidenti storici. Purtroppo è una tendenza che sta perdendo sempre più terreno. Basti pensare che la nuova Stagione dell’Accademia di Santa Cecilia è stata inaugurata da un’opera interamente costruita sui discorsi di Nelson Mandela, per accompagnare degnamente proprio la Corale di Beethoven che, sul celebre testo di Schiller, voleva essere un abbraccio al mondo intero.

Davvero siamo convinti che la musica abbia bisogno di essere nobilitata da una causa particolare per poterci portare un messaggio vero? Questa naturalmente non è una degenerazione che nasce oggi, bando ai catastrofismi, ma che risuona ancora di più nel vuoto di un “dibattito culturale” tutto imbevuto di feticismo per l’innovazione e di snobismo radical chic, che sconta ancora i danni di un modernismo imposto, ideologico e forzato. Ed è proprio il tentativo dell’ideologia di entrare a forza nella musica, di appropriarsi di essa, ciò da cui occorre guardarsi. Meglio che la musica rimanga incontaminata e riservata ad un pubblico ristretto, piuttosto che edulcorata da messaggi che con l’Opera in se non hanno nulla a che vedere. E poi, parlando francamente, non occorre certo essere musicologi diplomati per capire che il concerto Imperatore sarebbe stato la perla che è anche se si fosse chiamato “concerto n. 5” e basta. Figuriamoci se potrebbe trarre giovamento da un nuovo battesimo nel sangue evocato dalla parola Intifada.

A Beethoven stava a cuore la musica.

Articolo apparso su “360° – Il giornale con l’Università intorno”, n.02, dicembre 2015, anno XIV.