Se chiedete a qualcuno con qualche anno di più che non lo ama particolarmente “chi è David Bowie?”, nel 90% dei casi vi risponderà esattamente con testuali parole “beh, era prima di tutto un trasformista”, mettendo volutamente in rilievo la sua tendenza all’ostentazione dell’immagine rispetto alla produzione artistica, facendo involontariamente il gioco dell’autore che ha dedicato la sua vita alla ricerca di un’identità, aprendo al futuro e rinnegando il passato: “Ch-ch-changes Just gonna have to be a different man Time may change me But I can’t trace time” Questo è stato per tutta la sua carriera (e vita) il Leit Motiv dell’ “Uomo che ha venduto il mondo”. Un repertorio semiquasi infinito di cambiamenti repentini e impressionanti. Quello che nasce come artista Folk si riscopre anima di un Rock spregiudicato e sarcastico di cui non è schiavo, anzi lo padroneggia al punto tale di sbeffeggiarlo senza ritegno con canzoni ironiche che prendono spunto da diversi cliché e diversi sound. Non c’è la tanto osannata sincerità tra artista e pubblico. I valori dei Rocker classici vengono pian piano smontati con testi irriverenti, look non propriamente canonici e la spasmodica ricerca dell’immagine destabilizzante, strabiliante, provocante. È quasi impossibile tenere conto dell’immensa produzione dell’artista più fluido della capitale britannica, è già difficile seguire l’orbita irregolarmente regolare sulla quale ha sempre viaggiato: dal Glam – Rock con il rossetto e i premi come “Donna peggio vestita dell’anno” alla Dance. Da alieno caduto sulla terra, estremo ed esagerato, ai tempi in cui lui interpretava Ziggy Stardust (o viceversa probabilmente), conducendolo alla morte in un ultimo affondo, degno del miglior Cervantes, alla cultura musicale rockeggiante che ha sempre teso a sostituire in fretta i propri miti, passando per gli scenari post apocalittici tra uomini-cane e grattacieli, fino a giungere alle collaborazioni con Guru quali Brian Eno nel periodo Berlinese, senza dimenticare l’aristocratico decaduto filofascista Duca Bianco. Fatto sta che di materiale ce ne sarebbe abbastanza da parlare andando avanti per ore, uno dei pochi artisti illuminati in grado di portare la versatilità all’estremo, la cui artificialità è estremamente naturale, perché in grado di conciliare hard rock, trucco da drag queen, ballate languide, blues, pop art e musica elettronica. Il tutto portando sulle spalle l’arte circense dei clown, dei mimi e le diverse forme della danza in un immenso vortice kitsch in grado di travolgere ogni cosa incontrasse sul suo percorso, lasciandosi alle spalle critiche negative e insuccessi musicali (e superare il “decennio terribile”, durante il quale era diventato la caricatura della caricatura di se stesso, non era facile), aumentando sempre di intensità e minando le fondamenta del buon gusto e del “common sense”, in una forma moderna di sublime Burkiano o alla Turner (il cosidetto Delightful Horror). Ma se c’è una cosa che David ha sempre amato, è lo spazio. In questo e molto altro l’alieno caduto sulla terra a Londra ne ricorda un altro di Alieno Londinese, un dottore, Il Dottore: anch’esso padrone del tempo, anch’esso capace di cambiare diverse identità una dopo l’altra, anch’esso perso senza meta a vagare tra mondi diversi, anch’esso in fuga da qualcosa e anch’esso incapace di sistemarsi e fermarsi in un punto. Ed è normale, è magnificamente lampante: il “Bonk-Eyed Ginger” è anni luce avanti rispetto al suo tempo, è una forza irrefrenabile che viaggia a migliaia di metri da terra perché lì, in assenza d’attrito, può permettersi di continuare all’infinito. A Lad Insane è il catalizzatore perfetto tra passato presente e futuro (non per nulla viene definito artista più influente del decennio). L’ironia permea l’opera omnia. Abbiamo parlato delle sue metamorfosi quasi escheriane, ma arrivati a questo punto è necessario puntare la lente d’ingrandimento sull’eccezione che conferma la regola. Quest’eccezione ha un grado e un nome: Major Tom. Ora si attuerà una semplicissima divisione: da un lato quelli che potrebbero snocciolare l’intero testo delle due canzoni (più una se calcoliamo Hallo Spaceboy) in cui questo nome appare; dall’altro quelli che non sono veramente in grado di associarla a nulla ma balzeranno in piedi non appena sentiranno le note di Space Oddity, uno dei primi successi di Bowie. Major Tom lo seguirà fedele fino a fine carriera. Prima come astronauta temerario che si avventura fuori dalla capsula e nello spazio dopo esser diventato una celebrità, lui è rilassato ma inquieto. “Le stelle non sono come prima e sto fluttuando in maniera strana”, “mi sto muovendo ma mi sento fermo come non mai” e qui le interpretazioni si sprecano, perché la situazione è quantomai contraddittoria. Chiunque abbia avuto la fortuna di sentire la canzone fresca di composizione avrà percepito probabilmente la paura del successo, della fama, l’uscita dalla comfort zone, l’avventurarsi e lo spingersi oltre dell’artista, la sottomissione della vita privata ad opera della figura pubblica che diventa famosa in una sorta di Hotel California fantascientifico. Ma con il senno di poi capiamo che l’avventura del “maggiore” è anche la rappresentazione della più grande paura dello Starman: non esser più in grado di controllare il suo futuro, muoversi senza andare in nessuna direzione, in balia di una forza superiore. Questa paura, però, lascia spazio a una piccola consolazione quando la rassegnazione strappa un sorriso triste all’uomo nella tuta che lascia come ultima volontà quella di dire alla moglie che la ama, mentre ora lui vola in una lattina “far above the Earth”, lasciando trasparire come sia per lui un fatto tragico, ma anche un “dolce naufragare in questo mar”. Major Tom riapparirà – almeno altre due volte -, avrà ruoli ridimensionati (soprattutto nella terza apparizione nella già citata Hallo Spaceboy), ma in Ashes To Ashes l’effetto Spellbreaker è dannatamente dirompente: viene riesumato il protagonista di una vecchia canzone che aveva sentito il “ground control”, viene raccontato un po’ di ciò che accadde dopo e poi BOOM “Ashes to ashes, funk to funky We know Major Tom was a junkie” Bowie ci presenta l’eroe in tuta bianca semplicemente come un tossicodipendente, il viaggio spaziale assume le dimensioni di un trip e la gravità sembra sospendere la propria attività, mentre l’immagine dell’uomo nella “lattina d’acciaio” cade in picchiata dallo spazio profondo verso la terra. Privato del mistero, privato del simbolismo che lo innalzava a rappresentante di un escapismo eroico, ora è soltanto un uomo qualunque che dall’alto dei cieli sprofonda nella depressione. Non servono i sottotitoli per capire che comunque la droga sia stato un capitolo (e forse anche qualche paragrafo in più) della sua vita. L’intonazione della voce mentre pronuncia l’infame verso è provocatoria, è la decapitazione improvvisa di Ned Stark, è Holmes sconfitto da Moriarty, è scoprire l’inesistenza di Keyser Soze, è il castello di carte che crolla con una folata infausta, l’ostensione di una verità così ovvia da esser ignorata. Ma i sogni difficilmente muoiono, il subconscio è un bandito che sfoggia quel sorriso sardonico prima di pugnalarti nel petto, ricordandoti chi sei e cosa hai fatto anche a distanza di anni, e anche per David Bowie, dopo 67 anni di fuga, giunge il momento di affrontare l’estraneo nello specchio. Facciamo 66 anni e qualche mese. Se vogliamo esser più precisi parliamo di 18. A Bowie viene diagnosticato un cancro. Inizia una battaglia, la più dura probabilmente: pochissimi sono in grado di vincerla, e quasi mai la vittoria è definitiva. Ma qui la storia cessa di esser tale e diventa favola. Il 7 Gennaio viene rilasciato il singolo Lazarus, l’8 Gennaio è la volta dell’intero Album “Blackstar”. Lazarus è abbastanza inquietante, Bowie è bloccato a letto e bendato e soffre, soffre dannatamente mentre afferma di esser in paradiso, di esser morto dopo sofferenze e pericoli. Dopo poco insorge il delirio ed è finalmente libero, la figura del malato bendato a letto che si alza e il richiamo agli uccelli che sono liberi come lui invoca con forza le scene finali di “Birdman” . In seguito il morente assume le movenze meccaniche di un burattino e cerca di tenersi in piedi per posizionarsi su uno scrittoio, in preda agli spasmi, ricordando il San Matteo caravaggesco, mentre si avverte la presenza di donne spettrali nascoste negli armadi. La storia viene continuata nel Videoclip di Blackstar: qui rivediamo di nuovo il cantante bendato e scene con richiami satanici, accompagnate da versi enigmatici ed esoterici. Si accenna a sacrifici umani e l’atmosfera è quanto mai seria e onirica, il tempo e lo spazio si distorcono mentre la musica rituale rievoca quella che potrebbe essere benissimo la colonna sonora di un film sull’Antico Egitto. E qui vediamo l’atto d’amore. L’inquadratura alterna la casa in cui era ambientata la clip precedente ad uno scenario ultraterreno in cui una ragazza provvista di coda rende omaggio ad un – udite udite – astronauta ormai morto che viene lasciato pietosamente andare in orbita verso una stella che piano piano si va ricoprendo di nero. Siamo a metà del mastodontico video di 10 minuti, abbiamo visto l’astronauta esser inghiottito dallo spazio, uomini e donne tremanti come nel più classico film di esorcismi. Tutt’a un tratto la musica cambia, diventa celestiale. Le bende sono sparite in concomitanza della descrizione della morte di un individuo non meglio specificato e del fatto che qualcosa si impossessò di lui nel momento in cui la sua anima spirò. Qui torna più potente che mai il David di sempre: non c’è il rossetto, non c’è la calzamaglia, ma c’è il ghigno di chi sa già il finale del film, ci sono le movenze volte a suscitare disorientamento. Vediamo il clima ansiogeno d’inizio video spezzarsi quando il neo-sessantanovenne improvvisa un balletto con tanto di linguacce, per poi passare la scena a tre spaventapasseri crocifissi in un campo di grano. Forse verrebbe da chiedersi il perché di tali canzoni, un sintomo di rinascita? Un “Hey Cancro, sono più forte io!” ? Un “NUNTETEMO” ? In un certo senso, sì. Tutto ciò era il semplice corso degli eventi che seguiva la già citata “orbita regolarmente irregolare” dell’uomo che più di tutti forse poteva esser considerato una Star, una stella nel vero senso della parola. Stella : Corpo celeste che brilla di luce propria. Il segreto sta proprio nell’essenza dell’uomo e Davie non era un uomo normale: lui era lo Starman e in quanto tale ha vissuto la sua vita ardendo, illuminando ovunque la sua luce fosse in grado di arrivare. Ma si sa che la luce impiega del tempo a raggiungere la Terra, e si sa anche che le stelle hanno anch’esse un percorso di decadimento. Alcune si spengono in silenzio, è vero, ma le più grandi hanno un destino più glorioso. Alcune se ne vanno con un’esplosione, una supernova è il loro testamento: l’esplosione riecheggerebbe per la galassia causando stupore negli occhi degli spettatori ma, come nel caso del Sole, quando questo accadrà sulla Terra verrà percepito dopo diverso tempo. La Blackstar sapeva di esser esplosa. Era solo questione di tempo prima che il resto del mondo se ne accorgesse. Dopo una vita intera passata ad anticipare mode, ideali e tendenze, ha deciso di anticipare la morte stessa con un testamento in musica a 48 ore dalla dipartita, lasciando a bocca aperta tutti con un coup de theatre da Standing Ovation, cercando per un’ultima volta di sgomentare il proprio pubblico. Se c’è un’altra cosa che lo studio dei corpi celesti ci ha insegnato è che da una supernova può nascere a volte una stella di neutroni, un corpo celeste relativamente piccolo ma estremamente denso: il suo nucleo . Ciò che rimane della stella, ormai spoglia di ogni apparenza, cessa d’esser oggetto in divenire e rimane nudo così com’è. Immobile, e senza poterci far nulla. Ma Davie Boy non si arrenderà così. Troverà il modo di sputare nell’occhio delle leggi dell’universo. Deve solo ritrovare l’orientamento e continuare a correre, come il messaggero dell’imperatore kafkiano: sa che andrà, non sa dove, ma lo dice lui stesso… “I don’t know where i’m going from here But I promise it won’t be boring…”
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