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Sabato 18 Luglio. Per tutti uno dei pomeriggi più torridi di questa estate 2015, per molti il giorno della fatidica ed unica data italiana dei Muse al Postepay Rock in Roma. Avevamo già parlato qui del nuovo album Drones (da poco diventato disco d’oro anche in Italia), di cui il power trio ha presentato live i primi cinque singoli durante il corso del loro tour nei più importanti festival europei.

19511_10207124108923878_4204610955408771868_nPer me la giornata inizia con una tragica sveglia alle cinque del mattino ed un paio di treni da prendere. Arrivata alla stazione Termini già si inizia a respirare una certa aria tesa fra le decine di fan che incrocio, complice forse la cassiera della Conad che ci chiede “Ma questi Muse sono famosi? Sono quelli usciti da Amici?”. Sicuro, signora.
Nel frattempo, conoscenti e venti miliardi di post su Facebook mi dicono che la fila davanti ai cancelli dell’Ippodromo delle Capannelle ha avuto inizio già dal pomeriggio del giorno prima: quei pazzi sono i fortunelli che, all’apertura, si sono meritatamente aggiudicati i braccialetti per il pit e, di conseguenza, la transenna. Io e le mie amiche decidiamo di evitare almeno per un po’ lo stress della combo mortale sole cocente-corpi sudati appiccicati ai nostri ed arriviamo sul posto alle 16.30.
La security ci snobba completamente ombrellini, creme solari e bottiglie con tappi annessi (e grazie al cielo, perché chiedere 2 euro per una Ferrarelle calda è da ricovero) ma una volta dentro la situazione sembra tranquilla ed inizia l’inesorabile ed ansiogena attesa. La semi-pavimentazione ed i nebulizzatori ai lati della location sono la nostra salvezza, al contrario della pubblicità in loop del tour di Caparezza sui maxischermi, che porta tutti quanti all’isteria e a cori di dubbio gusto. Per non parlare di quei supermassive ass-holes che alle 18.20 decidono che è il momento di alzarsi: ed è subito infamate&respiri affannati.

Alle 20.45 in punto, visibilmente emozionati, salgono sul palco i Nothing But Thieves, la supporter band della serata.  I cinque ragazzi londinesi ci intrattengono per 45 minuti buoni e già dopo i primi pezzi spazzano via i pregiudizi ed i dubbi della maggior parte dei presenti che si aspettava il solito gruppo spalla scarso. Ho Trip Switch ancora in testa, con una cover di Immigrant Song ci conquistano definitivamente e con If I Get High ci fanno commuovere, trasformando l’ippodromo al tramonto in un mare di luci. Coinvolgimento ai massimi livelli, una bella scoperta. Il loro debutto in Italia, con un pubblico così grande, è stato magico per noi tanto quanto per loro.

I Nothing But Thieves ed il pubblico durante l'esibizione di If I Get High

I Nothing But Thieves ed il pubblico durante l’esibizione di If I Get High

I momenti più belli però devono ancora arrivare. Il tempo di cambiare strumentazione sul palco e l’adrenalina già inizia a salire. In ritardo, poco dopo le 22, sugli schermi compare il Drill Sergeant che da marzo abbiamo imparato a conoscere bene e Matt, Chris e Dom fanno il loro ingresso per poi subito attaccare con Psycho, dopo un breve saluto a Woma ed ai womani. Il pubblico italiano si fa subito riconoscere come quello che canta pure le parti strumentali (ed è tutto un popopo che manco i Mondiali 2006). Ci si fomenta, si salta e si canta. I preservativi regalati all’ingresso diventano inesorabilmente palloncini con su scritto sopra “Your ass belongs to me now”. Profetico.
Personalmente, avevo già perso la voce ai primi “Aye Sir!”, ma ci pensa la successiva quanto immancabile Supermassive Black Hole a farmi capire che arriverò a fine serata coi polmoni ridotti a brandelli. The Handler si dimostra la chicca che mi aveva colpito fin dal primo ascolto di Drones, peccato che qui arrivi la prima delusione: causa volumi sistemati davvero alla cazzo, la voce di Bellamy viene sovrastata dai cori e dagli strumenti. E adesso chi me lo rende quel falsetto orgasmico della seconda strofa che tanto aspettavo?
Mi consolo con una Plug in Baby lanciata con un botta&risposta esilarante fra fans e chitarra distorta, ed è qui che l’emozione inizia per me a farsi bella pesante. Realizzo che, dopo ben 7 anni di logorante attesa, sono davanti a quella che forse è la band della mia vita e la mia reazione ha dell’assurdo: mentre il nostro frontman preferito si destreggia in un riff suonato con la sei corde dietro la schiena, io mi appoggio alla spalla della mia migliore amica, ridendo a più non posso, per poi scattare a singhiozzare in maniera quasi convulsa, con le lacrime che scorrono a fiumi. La situazione è così stramba che la coppia davanti a me si sconvolge ed il tizio dietro mi sa tanto che mi sta riprendendo col cellulare. Li mortacci sua, mezz’ora dopo quasi glielo scaravento a terra mentre salto. Grazie karma. Ecco cosa succede quando passi tutto il concerto a fare video piuttosto che a godertelo. In ogni caso, forse quella era felicità pura e non me ne sono resa conto.

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Cerco di darmi nuovamente un contegno -aka urlo e salto come un’assatanata- mentre la scaletta (qui quella completa) scorre perfettamente, intensa e senza sbavature, forse fin troppo “meccanica”, fino ad arrivare a Munich Jam, una drum and bass in cui Chris e Dom danno il meglio. Quello che accade dopo è storia e si può sintetizzare in due semplici parole: Citizen Erased. Erano 9 anni che non la eseguivano live in Italia, la gente non ci sperava più ormai. Urlo imprecazioni e canto, ma attorno a me solo gelo e disorientamento. Soltanto un trentenne poco più in là mi sorride come a dire “Almeno tu te la ricordi”. Dove diavolo sono finiti tutti quei lamentoni che fino al giorno prima acclamavano ai vecchi Muse e speravano in una serata ricca di vecchie glorie, e poi manco ti canticchiano Apocalypse Please, eseguita al piano subito dopo?! Misteri della fede.

Ci pensano i brani successivi a riaccendere gli animi e va a finire che su uno dei pezzi più pop e commerciali di sempre (Starlight) torno a piangere come una ragazzina di fronte agli One Direction, per poi smettere non appena vengono lanciati gli Hollaballoons sulle note finali, quanto isteriche e movimentate, di Reapers. Matt decide di fare il grosso scaraventando la sua Manson sbrilluccicante su un amplificatore. Wow, proprio un cattivone.
Attimi di buio, cori dalla folla e dopo pochi minuti il trio rientra trionfante. Una deludente Madness che non c’entra proprio niente riapre l’encore e mi spompa anima e corpo, l’eccitazione avuta fin ora va a farsi benedire, dopo una setlist che in linea di massima è stata bella movimentata. Ancor più tremendo è sentirsi partire Mercy, che però guadagna punti con il lancio di coriandoli e stelle filanti, facendomi portare a casa qualche manciata di emozioni in più. Ma quello è anche il segno che lo show sta giungendo a termine, infatti poco dopo il bassista limona ben bene un’armonica in un omaggio a Morricone, annunciando Knigts of Cydonia, la canzone che più di ogni altra mi provoca brividi e tachicardia ad ogni ascolto, figuriamoci live.

Lì per lì manco mi rendo conto che ormai è tutto finito, con un “cheers” del batterista al microfono prima di defilarsi. Sono così felice che potrei anche finire sotto un tir e morire, non me ne pentirei.
Peccato che debba svegliarmi presto dal mio idillio, tipo quando sei tremendamente innamorata di uno stronzo e non te ne rendi conto, poi però un giorno apri gli occhi e finalmente capisci che è tutto uno schifo.
Gente, l’organizzazione del Rock in Roma lascia a desiderare: prezzi assurdi -sia del biglietto che di cibo/bevande-, security ed addetti che per certi versi sembrano i primi raccattati sulla Via Appia, criteri di entrata nel pit (so di gente arrivata alle 21 e che ha ottenuto i braccialetti) e molto altro.
11755848_10207124115084032_243198641828366223_nLa questione dei volumi è una cosa a sé. Location ed acustica fanno a cazzotti, alla fine non è che un prato dove piazzano un palco per due mesi l’anno, però zio che stai al mixer, non puoi prima farmi sentire forte la voce, poi altissimi i bassi, poi la fidanzata di Dom che dalle quinte gli urla che è un gran figo. Qualcuno trovi un nuovo fonico!
Senza contare i 35mila spettatori lasciati a loro stessi. Ho visto gente scavalcare la recinzione della stazione pur di prendere un treno in direzione Termini ed altrettante cercare di chiamare un taxi, ovviamente senza successo. Io per fortuna me la sono cavata con una walk of shame fino a Cinecittà e mezz’ora di autobus, ma si narra che molti siano rimasti imbottigliati nel traffico per ore o a bighellonare a piedi fino a notte fonda. Quello della viabilità però è un problema non solo della capitale, basti pensare a cosa è successo subito dopo gli Ac/Dc ad Imola.

A chi invece si lamenta del concerto in generale: si sapeva da mesi che sarebbe durato poco (17 pezzi + vari intro/outro per un totale di un’ora e 40), con scenografia scarna e gesti che ormai sembrano ripetuti pure a me che mi sono sempre limitata a vedere i live da YouTube. Purtroppo il format da festival non è concepito in Italia (al contrario di altri paesi, ai quali eventi hanno aderito i Muse per questo tour), sono consapevole anche io del fatto che, se avessi avuto un paio di gruppi in più a suonare già dalle sei di pomeriggio, forse tutto sarebbe stato migliore. O magari no, dato che ormai siamo abituati a lamentarci sempre e comunque. Non ci va mai bene niente, e allora forse ci meritiamo di spendere 70 e passa euro per poi stare tutto il tempo fermi immobili attaccati al cellulare. Roba fantascientifica per me: io ero così fomentata che avrei avuto il coraggio di pogare pure su Guiding Light…e a me quella canzone fa abbastanza schifo. Per fortuna c’è ancora gente che, nonostante tutto , riesce a godersi una serata del genere.

In ogni caso, attendo con ansia il tour indoor 2016. Passato il trauma del mio primo loro live, forse riuscirò ad essere un po’ più lucida ed oggettiva nel giudicare, anche se dubito l’entusiasmo esagerato mi abbandonerà. Effetti collaterali di ogni data: disidratazione, lividi, tracheite, dolori muscolari, torcicollo per il troppo headbanging. La depressione post-concerto manco la dico, ché tanto per un pezzo non mi passerà.
Dopotutto, i Muse rimangono pur sempre il mio primo amore musicale, e sappiamo benissimo che cose del genere “fanno dei giri immensi e poi ritornano”. Grazie Woma! 

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Mercy e stelle filanti sulla folla

foto per gentile concessione di Daniele L. Bianchi e Nothing But Thieves