Indonesia. Wonosobo. Stagione dei monsoni. Umido. Pioggia. Tempeste. Umido. Pioggia. Tempeste. Pioggia. Umido. Sole. La sveglia suonò alle 3.00am, la melodia avvolse la stanza energizzando e riscaldando l’ambiente. Mentre fuori era buoi e pioveva a dirotto. Quel giorno di gennaio io ed il mio partner in crime Gavin siamo saliti sul più attivo dei vulcani che abitano il suolo indonesiano – Merapi. Abbiamo preso pioggia, freddo, acqua, aria per vedere niente di che, ma un timido sole sorgere ed illuminare la faccia del vulcano. Insoddisfatti. Molto insoddisfatti. Meglio la scarpinata sul Krakatoa, vulcano che nel 1883 eruttò drammaticamente entrando nella storia delle esplosioni più violente. Lì le scarpe si immergevano in una sabbia color nero cenere e ad ogni passo il terreno scricchiolava sotto i piedi, nel frattempo lo zolfo ti prendeva la testa procurandoti un piccola emicrania. Insoddisfatti dunque siamo andati in città a Wonosobo, 810,000 abitanti, la quale si presenta confortevole e pulita alla vista e con un’imponente rotonda a forma quadrata che funge da piazza e da campo di allenamento per una squadra di calcio. All’inizio non sapevamo che i ragazzi che si stavano allenando facevano parte della famosa Ssb Bina Putra Wonosobo. Due campi, quattro porte, quarantaquattro tredicenni, due palloni, una casacca rossa. Io e Gavin ci avviammo per una camminata di perlustrazione tra le viuzze della città. Chi andava in quattro in motorino, in ordine di posto – Bambina, Papà, Bambina, Mamma. Ovviamente senza casco. Chi possedeva un coloratissimo carretto di frutta fresca. Chi alzava la mano e la muoveva da destra a sinistra mimando un saluto. Chi correva e giocava dietro le ringhiere del parco della scuola concedendoci un sorriso. Chi sorrideva. Nella piazza l’allenamento proseguiva e l’umidità si faceva sempre più appiccicosa. I due campi che guardavano a nord erano divisi da una lingua di piastrelle e nel mezzo c’era un maestoso verdeggiante albero che concedeva la sua ombra ai ragazzi e alle mamme per rifocillarsi e riprendersi dalle fatiche. Noi non potevamo non andare li, a riposarci come fanno le persone del luogo. La casacca rossa. Abbandonata nel prato, stava sicuramente aspettando di essere indossata. Io e Gavin ci guardammo. “Let’s do it”. Fu la sua risposta. Sapeva già quello che passava per la mia testa. Presi la casacca, la indossai e mi misi a sedere vicino le promesse del calcio indonesiano. I ragazzi non parlavano benissimo inglese e la timidezza prevalse, ma da buon italiano iniziai a parlare a gesti. Siamo o no conosciuti nel mondo per questo nostro indiscusso talento? Un nano millesimo di secondo ci volle per svoltare questa giornata monsonica. Si avvicinò una mamma che si improvvisò intermediario, con ottimo successo, tra me i ragazzi ed il coach. Dopo qualche domanda, ci trovammo di sorpresa divisi in due squadre, la palla a centro campo e i passanti fermi incuriositi a bordo campo. Il fischio del fischietto sancì il via alla partita. Tiro, passaggio, passaggio, palla persa, corri, cross, umidità, corri, passaggio, fallo, prendi fiato, punizione, tiro, rimessa dal fondo, colpo di testa, passaggio, assist, GOAL, 1-0, palla al centro, passaggio, passaggio, tiro, duplice fischio. Palla al centro, fischio, passaggio, fallo, colpo di testa, rimessa da lato, acqua, corri, passaggio, tiro, palla persa, corri, corri, cross, GOAL, 1-1, palla al centro, passaggio, tiro, triplice fischio finale. Era un normale giorno nella città di Wonosobo, dove il team locale Ssb Bina Putra Wonosobo si stava allenando. Una casacca rossa, ventidue sorrisi, un’unica squadra. Vai al sito Frostscape.com Vai alla pagina Facebook Vai alla pagina Twitter
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