Da circa una settimana un uomo, sulla quarantina, di origine belga ogni mattina esordiva dicendomi: “Oggi la vita è bella?”. Era il suo buongiorno, poi rideva e tornava a lavorare. Quell’uomo era il mio capo e da quando ci eravamo conosciuti, ad inizio tirocinio il 1 febbraio, mi dava il buongiorno così. Io, diffidente, annuivo con pressappochismo senza sforzarmi di rispondere a quella domanda nella maniera degna che avrebbe meritato. Nonostante lo conoscessi da poco tempo, l’ambiente intimo e l’essere costretti in dieci persone su due tavoli l’uno davanti all’altro, per otto ore al giorno, mi avevano permesso di fare già delle considerazioni circa il lavoro e il mio capo. Devo dire che non ne avevo troppa stima; una serie di cose tra cui le idee politiche molto diverse dalle mie, il suo modo di fare giornalismo e il suo strano modo di vivere, vestire e parlare mi hanno portato a rispettarlo solo perché mio responsabile ma non certo a credere di poter imparare qualcosa da lui. Era trasandato, parlava un italiano goffo e spesso divertente, ma quello che più mi rendeva estranea da lui era la sua poca attenzione ai dettagli: che si trattasse di vestiario, buone maniere, atteggiamento. Sembrava quasi che il mondo fosse estraneo a lui e al suo grande obiettivo di creare una casa editoriale di portata internazionale. Senza dunque sapere chi fosse veramente, dove vivesse, né tanto meno quale fosse la sua storia, a quella domanda ogni mattina rispondevo con la stessa leggerezza e disattenzione con cui al supermercato scelgo quale marca di cracker comprare o in cartoleria di quale colore prendere un quaderno nuovo. Stamani non si è presentato a lavoro. Lui che lavorava e basta. Questa mattina sono pure arrivata con qualche minuto di ritardo convinta che mi avrebbe ripreso. Al desk, però, non c’era nessuno. Così, credendo di averla scampata mi sono messa a lavorare convinta che prima o poi sarebbe arrivato per chiedere un resoconto della giornata. Dalla fretta, non ho certo fatto caso che nessuno mi aveva chiesto se oggi la vita è bella. Oggi Miguel, il mio capo, dall’italiano goffo e la tendenza a bere un po’ troppo vino, è morto. Alla notizia, ho pensato immediatamente a quella insolita domanda che mi aveva posto ogni giorno e che nessuno prima di lui mi aveva mai chiesto. Con sorpresa, mi sono accorta che, contrariamente a quanto pensassi, quel suo modo di iniziare la mattina, in qualche modo, mi aveva colpito tanto da cambiarmi. In pochi minuti mi sono accorta di quanto quello strano modo di dare il buongiorno e – da parte sua – di inneggiare alla vita, già mi manchi. Non appena arrivata a Bruxelles, dopo forse tre giorni di lavoro in redazione avevo stabilito che questo tirocinio non mi avrebbe mai insegnato qualcosa. Ai miei occhi, il capo era troppo ottuso e indaffarato per organizzare un buon lavoro, i fondi del giornale troppo bucati per poter pagare delle persone competenti che dessero struttura al gruppo e il giornalismo così di parte da essere per certe notizie forviante. Eppure, quell’uomo mi ha insegnato qualcosa. Miguel ha aperto il suo primo giornale non prima di dieci anni fa. Suo padre lavorava nell’editoria e lui ne ha seguito le orme. Aspirava in alto e non contento di un giornale locale aveva provato ad espandersi con tanto di canale tv su youtube, giornale online di affari internazionali e agenzia di pubbliche relazioni. Agli occhi di chi lavorava lì, quella realtà sembrava solo un bel “casino” senza alcuna possibilità di successo, ma nella sua testa chissà che cosa c’era. Miguel aveva l’influenza da giorni, ma rimaneva sul posto di lavoro perché “c’era troppo da fare”. Alle critiche rispondeva dicendo “Come devo fare, ho iniziato così e non posso che migliorare quello che ho già creato. Se chiudo, io che fine faccio? Questa è la mia vita”. In fondo, Miguel era un sognatore. Ha creduto fortemente in quello che, molto probabilmente, era un obiettivo che aveva da anni. Era ambizioso, tanto da guardare in alto anziché intorno a sé, cieco di fronte alla realtà dei fatti. O forse, era più che cosciente di quel che aveva nelle mani, ma rifiutava di riconoscere la mediocrità del lavoro sinora fatto perché apparteneva a lui. Del resto, prima ancora di dirigere quel giornale, Miguel aveva il compito di credere in quel che stava facendo. Lui doveva guardare al di là del confine a cui gli altri, semplici marionette alla mercé del suo sogno, non potevano arrivare perché, in principio, l’obiettivo, il desiderio e la passione per quell’editoria erano suoi e di nessun altro. Chissà se il mio capo si chiedesse ogni giorno quello che chiedeva a me. Forse il suo domandarlo a terzi, era un affermarlo a se stesso. Per lui, nonostante la fatica, la vita oggi era bella per il semplice fatto che ci fosse e che, oggi, non sarebbe potuto essere peggio di ieri. Chissà che, ai suoi occhi, il presente fosse un sicuro progresso rispetto al passato.
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