L’appuntamento più atteso della stagione sportiva è nel suo pieno svolgimento. La XXIII edizione dei giochi olimpici oltre ad essere la prima a cinque cerchi sudamericana, sarà ricordata come tra le più eticamente discusse. Era il 4 agosto, la vigilia della cerimonia di inaugurazione, quando Julija Efimova, nuotatrice russa, vinse il ricorso al Tribunale di arbitrato sportivo contro la decisione della Fina (Federazione internazionale di nuoto) di escluderla da questa Olimpiade, ottenendo di poter competere nelle proprie gare. Ma lei è solo una dei tanti, troppi nomi russi, forse uno dei più fortunati. Perché se in vasca è stato impedito di gareggiare a soli quattro atleti, per l’intera nazionale di atletica russa Rio è rimasto un sogno, o forse un incubo, irrealizzabile. Numeri diversi, ma identica la ragione: doping. Difficile riuscire a tirare le somme dopo così poco tempo dallo scandalo. Ciò che si sa è che la Russia è stata dapprima accusata di doping di stato dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale), poi obbligata, sport per sport, a accettare il verdetto di ciascuna federazione. Infine esaminata da una commissione composta da tre membri del CIO per salvaguardare gli atleti puliti, nel rispetto dello spirito olimpico. Insomma circostanze poco chiare che colpiscono soprattutto la grande Russia, accusata di aver coperto atleti dopati con il beneplacito delle autorità statali, ma che non risparmiano anche realtà più piccole come la nostra. Alex Schwazer è volato a Rio, attendendo la decisione della commissione sovra citata, ma le sue speranze si sono spezzate all’indomani del duro verdetto della Iaaf (Federazione Internazionale di atletica) che lo ha reputato colpevole di utilizzo di sostanze anabolizzanti a causa di una provetta sospetta dello scorso gennaio. La federazione di atletica ha sanzionato Schwazer per otto anni di squalifica e ciò significherebbe per l’alto-tesino dire addio alla propria carriera. Come un’onda altissima il doping ha rischiato di sommergere definitivamente i Giochi di Rio, ha lasciato sgomento e rabbia negli animi di atleti che devono competere con coetanei forti dell’arma più facile, l’ingiustizia. Girando la medaglia c’è però un altro aspetto, dal valore incommensurabile, poiché dimostra come e quanto lo sport possa annotare gli eventi e precedere la storia. Dieci nuovi atleti prenderanno parte ai Giochi, dieci rifugiati, dieci individui che urleranno con i loro muscoli cosa sta succedendo nel mondo. Vederli sfilare alla cerimonia di inaugurazione è stato un groviglio di emozioni: tristezza poiché privi di qualsiasi materiale sportivo. Tenerezza nel vederli sorridere increduli sotto migliaia di sguardi. Paura nell’immaginarli circondati dai giganti dello sport. Ma ciò che più di tutto mi ha colpito è stata la speranza che quei visi hanno catapultato sul piccolo schermo di tutto il pianeta. Credo che la più grande magia che il Comitato olimpico abbia ottenuto creando la squadra dei rifugiati sia quella di aver messo sullo stesso nostro piano quelle dieci vite così lontane e diverse. Questi dieci atleti sono lì in mezzo ai nostri miti per rappresentare i Paesi dai quali sono fuggiti, Paesi inginocchiati sotto il peso della violenza. E sono lì con i loro sogni d’infanzia, che sono uguali per tutti i bambini del mondo. Come a dire “siamo uguali a voi”. Ombra e luce dello stesso mondo. Da un lato il doping che divide, lo sport che riunisce dall’altro. A noi semplici spettatori non resta che tifare ed imparare da ciascuno degli eroi che hanno l’onore di competere, esultando con tutta l’Italia per aver infranto il muro delle duecento medaglie olimpiche con l’oro del judoka Fabio Basile, classe 1995. Tanti altri sono gli atleti italiani degni di nota, come lo strepitoso Gabriele Detti, nuotatore mezzofondista che ha ottenuto un inaspettato bronzo, o come la coppia di tuffatrici Cagnotto-Dalappè, sul podio olimpico per la prima volta. Ma di queste e altre medaglie avremo modo di parlare meglio. Ora è tempo di tifare.