Il nuoto è uno sport strano. O meglio: via il contatto fisico, via la lotta contro l’amico-nemico per guadagnare terreno, per impossessarsi di una palla bastarda che sembra andare dove vuole lei, resta lo scontro contro il proprio corpo, contro il proprio io, contro il proprio limite. Ti alzi alle quattro del mattino, e via in vasca, solo come un cane, anzi, con un altro cane, l’allenatore, che però sembra un rottweiler per come ringhia: ringhia quando sei sul blocco di partenza, ringhia quando sei in acqua, ringhia quando sei in doccia. La smette solo durante le gare: a quel punto si mette da un lato, seduto, o va a farsi un giro; poi quando sei fuori ti da un buffetto sulla guancia, o sul sedere, e ti fa “bravo”, con occhi da cucciolo di labrador, anche se sei finito ultimo, o terzo, o peggio del peggio, secondo. Nel nuoto è così: niente spettacolo, rimane il sudore invisibile di mesi e mesi spesi ad abbassare il proprio limite –che poi è nuotare una vasca impiegando un secondo in meno, ed è già grasso che cola se ce la fai- 50 metri dopo 50 metri, o 25 dopo 25, per gli squali della famosa “vasca corta”. Gli amici te lo dicono, guardandoti come si guarda un povero pazzo “Tu sei bravo eh, ma bho, cioè non che non sia bello, sai com’è, forse a farlo… Però visto da fuori è un po’ noioso”. Noia. Pensieri. Vasche. E poi di nuovo vasche. Piscine deserte. Piscine piene di gente, il giorno della gara, gran casino, genitori sulle tribune, fidanzati e ragazze, e qualche amico coraggioso che è venuto là, solo per te, a vederti fare quello che fanno i nuotatori: su e giù, giù e su. Su e giù. Giù e su. E’ in fondo quello che si fa anche al 52° Settecolli, campionato di nuoto made in Roma, per il weekend dal 12 al 14 giugno. Lo scenario è quello grandioso del Foro Italico, con il suo Stadio del Nuoto e la piscina al coperto, che vede da anni e anni uomini e donne, bambini e bambine, sudare in costume. Al Settecolli c’erano tutti –a parte gli Americani, ovvio, ma loro vantano la miglior squadra di nuoto nel mondo e possono permettersi di snobbare certe competizioni minori- dalla Meiluyite alla Pellegrini, da Van Der Burgh a Paltrinieri. Tutti là. Tutti a fare su e giù, giù e su. Gregorio Paltrinieri, anno 1994, incanta gli Italiani in tribuna e non: lui è così, un ragazzetto un po’ troppo alto della provincia di Modena –Carpi, per l’esattezza- che tifa Juventus ed indossa Converse bianche. Arriva in piscina con la faccia di uno che là ci si trovava per caso, aveva un appuntamento e bho, sono arrivato con una mezz’ora d’anticipo, non me la regolo mai, vado a vedere che fa tutta ‘sta gente e torno qua. Poi però si tuffa in quel profondo specchio azzurro e capisci che Greg sapeva benissimo perché si trovava là, e perché nuota. 1500 stile libero, un chilometro e mezzo in poco più di quindici minuti: Paltrinieri sembra nato per quello, eleganza e costanza allo stato puro, non perde un secondo, titic titoc, pare quasi che le sue braccia abbiano un orologio montato all’interno che le fa scattare sempre con lo stesso ritmo, sulla stessa musica, che deve essere qualcosa di poetico, e di bellissimo. Poi esce, riprende sneaker, pantaloncini, t-shirt, e va via. Sulla strada fino agli spogliatoi è tutto un “Greg, due parole per il Corriere”, “Greg, una battuta per la Rai”, “Greg, facciamo una foto?”, “Greg, per favore un selfie” e la risposta è sempre e solo una “Si, si, certo”. E lo dice con un gran sorriso, che è il sorriso degli dei, ma di quelli buoni, e pazienti, quelli là che ne combini di tutti i colori ma ti perdonano sempre, perché, in fondo, un po’ umani lo sono anche loro.
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