Era il 10 luglio 1944. A Gamogna, un pugno di case in pietra vicino a Marradi, un piccolo centro amministrativamente in Toscana ma sul versante romagnolo dell’Appennino (Romagna toscana), c’erano gli alberi in fiore, faceva molto caldo e la luce del sole filtrava tra i rami rischiarando uno spiazzo dove c’era riverso a pancia in giù il vicecomandante del Battaglione Ravenna, Berni. Al suo fianco, anche lui esanime, il comandante Nico: quest’ultimo non era altro che il partigiano Vittorio Bellenghi; l’altro invece, il Berni, era Bruno Neri. Quando si parla di Bruno Neri, è più che mai opportuno partire da Gamogna, perché quando si narra della sua breve vita, si sta raccontando di una guerra, che oltre a lui è stata combattuta da tantissimi altri volontari che parteciparono alla Resistenza Italiana. Molti, non tutti, hanno pagato quel desiderio di libertà al prezzo più alto, dopo vent’anni di oppressione, contro un moribondo fascismo che cercava ossigeno dopo la caduta avvenuta il 25 luglio 1943. Bruno Neri nacque a Faenza nel 1910. Frequentò l’Istituto Agrario di Imola ed era appassionato di auto, ma già a 14 anni era riserva della squadra di calcio della sua città natale. Giocava nel ruolo di mediano, e dimostrò fin dalla giovane età una grande attitudine per il gioco del calcio, tanto è vero che a 16 anni era titolare inamovibile nel Faenza. Dopo qualche stagione da protagonista con la casacca biancoceleste con cui era cresciuto, venne comprato dalla Fiorentina per dieci mila lire, e si ritrovò quindi titolare nei viola a soli 19 anni. Il presidente della Fiorentina, il fascista e squadrista marchese Ridolfi, volle allestire una squadra competitiva per salire in massima serie, ed effettivamente al secondo anno in viola di Neri, l’obiettivo fu raggiunto. Inoltre a Firenze emersero insieme alle sue innate capacità in mezzo al campo, anche i suoi interessi fuori dal campo: Bruno era un grande amante di Eugenio Montale, leggeva il giovane Cesare Pavese, e pare se ne intendesse anche di arte e di recitazione. Era di casa al Bar delle Giubbe Rosse nel centro del capoluogo toscano; il suo alto livello culturale e le capacità acquisite nel linguaggio grazie ai suoi interessi, gli consentirono di avere conversazioni e coltivare amicizie con giornalisti, scrittori e artisti che frequentavano questi centri culturali dell’epoca, nei quali senza dubbio trovava terreno fertile l’ideologia antifascista, che prendeva sempre più forma di pari passo al consolidamento definitivo del regime fascista. Neri non fu un semplice mediano, perché riuscì a coniugare la sua straordinaria abilità di interdizione sul campo a una raffinatezza culturale senza eguali. Nel 1931 fu inaugurato il nuovo stadio dei viola, intitolato allo squadrista fiorentino Giovanni Berta, e fu giocata una partita per l’occasione. Quel giorno era prevista addirittura la presenza di Mussolini, considerando anche che la struttura dello stadio vista dall’alto non era altro che una gigantesca D. Alla fine, però, quest’ultimo non godette della celebrazione a lui riservata. Prima dell’inizio della gara era prassi che i ventidue giocatori in campo salutassero i gerarchi presenti sugli spalti e in quell’occasione destò scalpore proprio Bruno Neri, che fu l’unico calciatore a non alzare il braccio destro per compiere il saluto romano, rimanendo con entrambe le braccia lungo i fianchi, dimostrando sotto la luce del sole, nel pieno del Ventennio, da che parte stava. Tra il 1936 e il 1937 Neri giocò tre partite con la nazionale italiana, nella quale si trovò in squadra insieme a calciatori del calibro di Giuseppe Meazza e Silvio Piola. Sempre nel ’36 si trasferì per una stagione alla Lucchese, allenata da Ernest Erbstein, con il quale andò al Torino l’anno dopo. Anche nel capoluogo piemontese continuò la vivace attività culturale del calciatore faentino: alloggiava nell’albergo Dogana Vecchia di via Corte d’Appello, frequentato dai calciatori della Juventus, ma anche da giovani scrittori ed intellettuali; lì incontrò anche gli artisti che vivevano nelle soffitte del lungo Po. Intanto quando era ancora a Firenze aveva completato gli studi superiori e si era iscritto presso l’Istituto di Lingue Orientali di Napoli, perciò continuava a studiare e a dare esami nell’università partenopea durante tutti quegli anni. Neri chiuse la sua carriera da calciatore con la maglia granata nel 1940, pochi anni prima la consacrazione di quel gruppo, che sarebbe diventato il Grande Torino, ricordato ancora oggi come una delle squadre più forti del calcio italiano e forse di tutti i tempi. Decise a questo punto, dopo aver intensificato i rapporti con suo cugino Virgilio, notaio milanese, di comprare un’officina e trasferirsi nel capoluogo lombardo. Al momento dell’entrata in guerra Neri aveva già ripreso contatti con il calcio perché nel tempo libero allenava il Faenza, ma segretamente collaborava con le forze antifasciste. Il cugino Virgilio gli fece conoscere Giovanni Gronchi e don Luigi Sturzo e, proprio grazie a queste nuove amicizie, dopo l’armistizio di Cassibile del 1943, Bruno sapeva bene che scelta fare: non guardò assolutamente a Salò e alla nascente Repubblica Sociale Italiana, ma optò per andare sui monti a fare resistenza proprio ai nazisti e ai fascisti. Per un terribile scherzo del destino si trovò quindi ancora a dover lottare contro gli avversari, a parlare di manovre di accerchiamenti, di attacchi e di difese. Stavolta però il calcio non c’entrava e la battaglia non era metafora di pressing asfissiante e di ruvidità da mediano: la battaglia era quella vera, era la guerra. La guerra sui monti. Sempre con l’intercessione del cugino, Bruno Neri entrò nella Resistenza, su autorizzazione del CLN, fondò l’ORI (Organizzazione Resistenza Italiana), che aveva il compito di fare da ponte tra le varie brigate partigiane. Egli era un uomo contro, un mediano che, per quanto questo ruolo imponga determinati dettami, precisi e rigidi, si ribellava alle convenzioni. Il 10 luglio del 1944, Bruno e il suo amico Vittorio Bellenghi, giocatore di pallacanestro, andarono in avanscoperta per verificare che non vi fossero tedeschi sulla strada che stavano costruendo tra Marradi e San Benedetto in Alpe. Nei pressi della chiesa di Gamogna, dove sorge il cimitero, vi fu un’improvvisa svolta: lì si imbatterono inaspettatamente in un gruppo di una quindicina di tedeschi. La vittoria dei partigiani e la liberazione furono l’ultimo atto e il premio finale per la battaglia di tutti gli antifascisti, che già durante i vent’anni del regime e poi nella guerra contro i nazifascisti hanno sopportato e sono andati in contro all’esilio, a brutali torture e persino alla morte, spinti dalla voglia e dal desiderio di libertà, valori fondanti ancora oggi dopo più di settanta anni; valori per cui vale la pena ricordare ogni 25 aprile la Resistenza e i partigiani.
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