Inchiesta – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it Sun, 18 Feb 2018 20:38:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.8.2 http://www.360giornaleluiss.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/02/cropped-300px-32x32.png Inchiesta – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it 32 32 97588499 Il reato di sedizione ed il principio di autodeterminazione http://www.360giornaleluiss.it/il-reato-di-sedizione-ed-il-principio-di-autodeterminazione/ Sun, 05 Nov 2017 18:40:21 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=9016 La Costituzione spagnola del 1978, al titolo VIII, prevede un ordinamento di tipo regionale formato da 17 Comunità autonome. Ognuna di esse ha un proprio organo esecutivo ed un parlamento che legifera sulle materie di competenza regionale. Tra queste troviamo la Catalogna. Nel giugno scorso, il parlamento catalano ha deciso di tenere un referendum vincolante

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La Costituzione spagnola del 1978, al titolo VIII, prevede un ordinamento di tipo regionale formato da 17 Comunità autonome. Ognuna di esse ha un proprio organo esecutivo ed un parlamento che legifera sulle materie di competenza regionale. Tra queste troviamo la Catalogna.

Nel giugno scorso, il parlamento catalano ha deciso di tenere un referendum vincolante sull’indipendenza della regione dal governo centrale ed è stato indetto per il 1 ottobre.

Il 20 settembre però, la Guardia Civil, un corpo della gendarmeria spagnola, ha compiuto varie operazioni di polizia per impedire il referendum. Infatti, è entrata in alcuni edifici del governo catalano per sequestrare il materiale collegato al referendum ma, mentre perquisiva la sede del Ministero dell’Economia, è stata assediata dai Mossos d’Esquadra, polizia catalana guidata da Josep Lluis Trapero. Quest’ultimo, definito un “purosangue catalano”, è dunque stato accusato dalla Procura generale di avere ordinato agli agenti di rallentare le operazioni di polizia, non avendo bloccato la folla di manifestanti che nel frattempo si era radunata intorno agli edifici. Per la Procura si è trattato di sedizione. L’articolo 544 del codice penale spagnolo dispone infatti che: “Son reos de sedición los que, sin estar comprendidos en el delito de rebelión, se alcen pública y tumultuariamente para impedir, por la fuerza o fuera de las vías legales, la aplicación de las Leyes o a cualquier autoridad, corporación oficial o funcionario público, el legítimo ejercicio de sus funciones o el cumplimiento de sus acuerdos, o de las resoluciones administrativas o judiciales.”

Possiamo quindi definire la sedizione come una ribellione violenta volta a rovesciare il potere costituito punibile, ai sensi della legislazione spagnola, con una condanna dai 4 a 8 anni di carcere, 15 anni se a commetterla è un pubblico ufficiale. La Procura generale aveva chiesto la custodia cautelare in carcere per il capo dei Mossos ma il tribunale costituzionale ha disposto invece la libertà vigilata con l’obbligo di non uscire dal territorio spagnolo.

I Mossos d’Esquadra sono stati creati nel XVIII secolo e hanno da sempre rappresentato uno dei simboli dell’indipendentismo catalano. Dopo gli eventi del 20 settembre, molti si sono interrogati sul comportamento che la polizia catalana avrebbe tenuto nei confronti dei votanti. Il referendum del 1 ottobre, ritenuto illegale dal governo spagnolo e dal Tribunale costituzionale, è stato vinto dal SI (90% dei voti) e, mentre i poliziotti catalani non hanno ostacolato lo svolgimento del referendum, la Guardia Civil è entrata in vari seggi per sequestrare il materiale elettorale e ciò ha causato scontri e decine di feriti.

Il presidente della regione, Carles Puigdemont, dopo l’esito positivo del referendum ha dichiarato l’indipendenza della Catalogna ma subito dopo l’ha sospesa per cercare una soluzione con il governo centrale, guidato da Mariano Rajoy. Questo ha causato una gran confusione.

Il quesito referendario recitava come segue: “Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di Repubblica?”. Aveva dunque come oggetto il diritto all’autodeterminazione il cui esercizio comporta la proclamazione dell’indipendenza. A questo punto sorge un problema dal punto di vista del diritto internazionale. Infatti, il diritto all’autodeterminazione è invocabile in 3 casi: colonizzazione, occupazione militare straniera e apartheid. Poiché la Catalogna non rientra in nessuno di questi tre casi, la dichiarazione di indipendenza della regione spagnola è considerabile come un semplice fenomeno secessionista, che non è proibito dal diritto internazionale, come ha stabilito la Corte Internazionale di Giustizia nel parere sull’indipendenza del Kosovo. Molti Stati, però, hanno affermato che non verrà mai riconosciuto lo Stato della Catalogna e, benché il riconoscimento internazionale non sia tra gli elementi costitutivi di uno Stato, il non riconoscimento comporterebbe l’isolamento dello Stato nella comunità internazionale.

Dopo quasi un mese dal referendum, il Parlamento catalano ha approvato la dichiarazione di indipendenza e, in conseguenza di ciò, il governo spagnolo ha applicato l’articolo 155 della Costituzione spagnola, che permette allo Stato di obbligare una Comunità autonoma a rispettare la legge. L’articolo 155 recita come segue: “Qualora una Comunità Autonoma non dovesse ottemperare agli obblighi importi dalla Costituzione o dalle altre leggi, oppure si comporti in modo tale da attentare agli interessi generali della Spagna, il Governo, previa richiesta al Presidenza della Comunità Autonoma o con l’approvazione della maggioranza assoluta del Senato, potrà prendere le misure necessarie per obbligarla all’adempimento forzato dei suddetti obblighi o per la protezione dei suddetti interessi.

Il Governo potrà dare istruzioni a tutte le Autorità delle Comunità Autonome per l’esecuzione delle misure previste nel comma precedente.”

La situazione è senza precedenti: infatti, l’articolo 155 non era mai stato applicato prima d’ora. Solo nel 1989 ne fu minacciata l’applicazione nei confronti della Comunità autonoma delle Canarie che non voleva adeguarsi agli obblighi fiscali derivanti dall’adesione della Spagna alla Comunità Economica Europea. Ora, invece, il premier Mariano Rajoy ha annunciato lo scioglimento del Parlamento catalano, ha indetto le elezioni anticipate e ha rimosso dall’incarico tutti i membri dell’esecutivo, tra cui Puigdemont. Quest’ultimo, accusato anche lui di sedizione insieme ad altri esponenti del governo catalano, si è rifugiato a Bruxelles e non è rientrato in Spagna per presentarsi davanti al giudice e, per questo motivo, è stato emesso un mandato di arresto europeo nei suoi confronti.

Quello che accadrà nelle prossime ore, nei prossimi giorni e nei prossimi mesi non è possibile stabilirlo. L’unica cosa da fare è aspettare le elezioni indette da Rajoy per il 21 dicembre.

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Bambini sperduti http://www.360giornaleluiss.it/bambini-sperduti/ Sat, 16 Sep 2017 17:03:03 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8810 Pensate che io sia un peso? Questa l’apertura potente del video ‘A Child is a Child’ realizzato dal fotografo e regista britannico John Rankin e pubblicato lo scorso 13 settembre in occasione del lancio del rapporto UNICEF-IOM ‘Harrowing Journeys’. È un video musicale, che sulle note  di ‘Four walls’ dei Bastille, vede i piccoli migranti

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Pensate che io sia un peso? Questa l’apertura potente del video ‘A Child is a Child’ realizzato dal fotografo e regista britannico John Rankin e pubblicato lo scorso 13 settembre in occasione del lancio del rapporto UNICEF-IOM ‘Harrowing Journeys’. È un video musicale, che sulle note  di ‘Four walls’ dei Bastille, vede i piccoli migranti protagonisti porre interrogativi pungenti a chi visualizza nel nord del mondo, mentre sullo sfondo scorrono fotografie di altri bambini ritratti in situazioni di emergenza. Il messaggio centrale è che le etichette di ‘rifugiato’, o ‘migrante’ che sia, non tengono di fronte ad un bambino: ‘un bambino è un bambino ed è tutto quel che conta’, come rilascia Rankin in una intervista. La clip si conclude con un appello da parte di Unicef ai leader della terra, perché proteggano i bambini migranti e rifugiati.

Nonostante l’innegabile carico emotivo di questo video, pensato per sensibilizzare anche i cuori più duri e le menti più chiuse, quello dei minori migranti non è uno strumento per bagnare di lacrime facili il dibattito sui migranti, ma un fenomeno reale che cresce in maniera sempre più consistente. Secondo il nuovo report Unicef infatti, sono quasi 50 milioni i minori costretti a vivere fuori dal proprio Stato di nascita o sfollati all’interno dei loro paesi, ed almeno 28 milioni di essi sono veri e propri rifugiati da conflitti armati ed instabilità nei paesi di origine. Ed è inoltre drammaticamente crescente il fenomeno degli UASC – unaccompanied and separated children: sono infatti almeno 300.000 i bambini non accompagnati e separati dalle famiglie registrati in circa 80 stati tra il 2015 e 2016, 5 volte la cifra registrata nel 2010. Sono bimbi sperduti, indifesi ed esposti a continue violenze, abusi e stress emotivo durante il viaggio, cui bisogna aggiungere tutti i ‘bambini invisibili’ che non vengono registrati al momento dello sbarco e che continuano a soffrire anche stando in Europa, cadendo nelle mani di trafficanti, sfruttatori ed organizzazioni criminali.

Nonostante non domini i dibattiti televisivi e le testate giornalistiche tanto quanto i numeri degli sbarchi e la loro attesa riduzione, quella dei bambini migranti, accompagnati e non, è una realtà che coinvolge l’Italia in maniera evidente. Lo scorso maggio infatti, in occasione del lancio della petizione all’Unione Europea ‘Per ogni bambino sperduto’ che chiede protezione dei diritti e accesso ai servizi essenziali per tutti i minori migranti e rifugiati, Unicef Italia e l’Istituto di ricerca sulle popolazioni del CNR hanno diffuso il rapporto ‘Sperduti. Storie di minorenni arrivati soli in Italia’. Si tratta di un rapporto molto narrativo, che racconta singole storie di successo e insuccesso di bambini invisibili, che tuttavia fornisce dati quantitativi ben chiari: nel 2015, 12.360 minorenni sbarcati erano non accompagnati, mentre l’anno seguente sono stati 16,863, ovvero il 15% di tutti gli sbarchi nel periodo. Ed è dedicata agli UASC in Italia la dashboard pubblicata lo scorso 14 settembre dal Regional Office for Southern Europe dell’UNHCR. Ci rivela che, nonostante il numero effettivo -13,227- di minori non accompagnati sbarcato tra gennaio ed agosto 2017 sia diminuito rispetto all’anno passato, in linea con la recente riduzione generale degli sbarchi, la percentuale sugli sbarchi totali è scesa solo al 13%, mostrando che il fenomeno ‘bambini sperduti’ non è in riduzione.

In Italia esiste un contesto normativo che assicura un alto livello di protezione al minore straniero non accompagnato, ed è ratificata sin dal 1991 la convenzione Onu sui diritti dell’infanzia che riconosce la specificità della condizione minorile e assicura la non espellibilità del minore immigrato. Inoltre nel marzo scorso è stata approvata una legge che rafforza ancora di più le misure di tutela, ad esempio riducendo a 30 giorni la permanenza massima del minore in strutture di prima accoglienza e vietando condizioni di promiscuità con adulti nelle stesse, prevedendo cautele particolari di carattere culturale, psicologico e linguistico durante il processo di identificazione, prescrivendo lo svolgimento di indagini familiari su ciascun minore ai fini del ricongiungimento ed istituendo un elenco di tutori volontari disponibili ad assumere la tutela di al massimo un minore o più minori nel caso siano fratelli o sorelle. Tuttavia ci sono ancora molte lacune al livello normativo e disfunzioni nella sua applicazione. Il permesso di soggiorno concesso ai minori infatti termina al compimento della maggiore età e necessita di conversione al permesso ‘ordinario’ a condizione che il soggetto sia in Italia da almeno tre anni ed abbia partecipato ad un percorso di integrazione per almeno due anni. Su piano applicativo invece, aumentano gli ‘irreperibili’, ovvero i minori che fanno perdere le proprie tracce per proseguire il viaggio verso altri paesi europei, continuando ad essere a rischio, ed aumentano i minori stranieri nel circuito penale, per reato di spaccio di stupefacenti nella maggior parte dei casi, a segnale del fallimento dei programmi di integrazione e di tutela dei minori dalle organizzazioni criminali.

C’è dunque bisogno di un impegno maggiore per far sì che gli UASC in territorio italiano, che formalmente hanno gli stessi diritti dei minori italiani, ne godano in maniera sostanziale. Servono piani di intervento sistematici ed a lungo termine, anziché esclusivamente a carattere emergenziale, affinché questi bambini possano lasciarsi alle spalle quanto di negativo c’è nelle difficoltà che hanno affrontato e ne mettano a frutto le opportunità positive per iniziare a progettare le proprie vite.

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I desaparecidos siriani http://www.360giornaleluiss.it/i-desaparecidos-siriani/ Wed, 10 May 2017 07:39:32 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8624 Sei anni. Sei lunghi anni dall’inizio della guerra civile siriana, quando, il 15 marzo 2011, molte persone scesero in piazza a Dar’a, città a sud di questo Paese, per chiedere al loro governo maggiore libertà. La primavera araba travolse così anche la Siria, governata da una dittatura da più di 45 anni. E’ l’inizio dell’inferno

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Sei anni. Sei lunghi anni dall’inizio della guerra civile siriana, quando, il 15 marzo 2011, molte persone scesero in piazza a Dar’a, città a sud di questo Paese, per chiedere al loro governo maggiore libertà. La primavera araba travolse così anche la Siria, governata da una dittatura da più di 45 anni. E’ l’inizio dell’inferno che avrebbe portato a migliaia di morti, a quasi 5 milioni di profughi fuori dalla Siria, a più di 6 milioni di sfollati interni. A questi vanno aggiunti però i desaparecidos siriani: persone, troppo spesso dimenticate nell’elenco delle vittime, che, secondo la definizione di Amnesty International, sono state arrestate e imprigionate dallo Stato, o da persone che hanno agito in nome di quest’ultimo, ma la cui detenzione viene costantemente negata dalle fonti ufficiali, privandoli così della protezione della legge. In poche parole, sono le cosiddette sparizioni forzate di presunti oppositori del regime. È una macchina segreta attuata da sempre dallo Stato, ma che adesso sta vedendo il numero di vittime crescere giorno dopo giorno. Tra di loro, ci sono anche ragazzi tra i 12 e i 14 anni, come Ahmad al-Musalmani, arrestato e torturato sino alla morte perché aveva nel telefono una canzone contro il governo di Assad. La sua famiglia dovrà aspettare tre anni prima di sapere che fine abbia fatto il bambino. Poi, manifestanti contro il governo, costretti a salire sui camion per chissà dove, ma anche persone selezionate in modo del tutto arbitrario e ingiustificato. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani dal 2011 più di 65mila persone sono scomparse.

La vicenda di queste scomparse è riuscita ad ottenere visibilità solo da qualche anno, grazie alla denuncia fatta da Caesar, pseudonimo di un ex ufficiale della polizia militare siriana. Incaricato di documentare la morte e le torture inflitte ai detenuti nei carceri siriani tra il 2011 e il 2013, grazie all’aiuto di un amico, ha iniziato a copiare di nascosto molte foto e a conservarle al sicuro fino a quando, temendo per la sua incolumità, ha lasciato il Paese per cercare asilo in Europa. Il numero delle immagini è di circa 55mila, con quattro foto per corpo. Sono più di 6700 i siriani immortalati, morti durante la detenzione e trasferiti poi in un ospedale militare. Ogni foto, usata dal governo siriano come un documento non ufficiale che attesta il decesso delle vittime, ritrae i cadaveri con addosso tre etichette. La prima che indica il numero di detenzione, la seconda il numero del ramo di sicurezza che li ha arrestati e la terza il numero dell’ospedale, nel quale saranno trasportati i corpi morti. Secondo la testimonianza di Caesar, le vittime vengono inizialmente lasciate nei centri di detenzione dove è avvenuta la morte, ammucchiate nelle celle, in preda a topi ed insetti.

Lo scopo è quello di ricordare ai detenuti ancora in vita cosa li aspetta, per spaventarli ancora di più, oltre ad aumentare la possibilità di malattie. Poi, nei tre o quattro giorni che susseguono, arriva un medico legale per i cadaveri. Quando il numero supera i 200 o i 300, vengono portati via e seppelliti nelle fosse comuni. Tuttavia, vi sono alcuni che sostengono che molti corpi siano bruciati con degli appositi forni. La morte invece, quella è avvenuta a causa di maltrattamenti fisici e psicologici.  Munir-al-Hariri, ex capo della sicurezza politica, un ramo del servizio di intelligence nazionale, che ha disertato nel 2012, ha parlato apertamente all’emittente araba Al Jazeera per la prima volta. “Essere detenuti in Siria è la cosa peggiore che ti possa accadere” spiega “un detenuto non muore una volta sola, ma almeno cento volte al giorno per via delle torture fisiche e psicologiche che gli vengono inflitte”. Infatti, lo scopo della detenzione non è quello di uccidere, ma quello di aumentare la tirannia dello Stato. Uno Stato che ha a sua disposizione un corpo di polizia addestrato ad usare qualsiasi forma di tortura, dai bastoni alle fruste fino all’uso di sedie progettate appositamente per spaccarti la schiena.

Mappa che mostra i maggior centri di detenzione a Damasco dove sono state scattate le foto pubblicate da Caesar. Fonte: © 2015 Human Rights Watch

 

Le foto di Caesar hanno raggiunto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha mosso al governo siriano le accuse di omicidio, stupro, tortura e sterminio dei detenuti. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza che avrebbe portato la Siria davanti al Tribunale Internazionale ha invece incontrato il veto della Russia e della Cina.

Successivamente Caesar è stato chiamato davanti al Congresso Americano, dove ha mostrato le immagini alla Commissione Affari Esteri. Nello stesso tempo, è stato istituito un team investigativo internazionale per far luce sui presunti crimini di guerra commessi in Siria e per verificare la credibilità delle foto. Nel Novembre 2016, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato, con la stragrande maggioranza di voti, due progetti di legge: il primo prevede provvedimenti severi per il governo siriano e i suoi sostenitori, tra i quali Russia e Iran, per crimini di guerra e contro l’umanità. Il secondo, invece, vede il rinnovo del Codice Penale imposto all’Iran a partire dal 1996 e che sarebbe dovuto scadere nel 2016. I due progetti, passati alla Camera, non hanno al momento avuto seguito al Senato.

Foto di presunte vittime nei centri di detenzione di Assad, mostrate in presenza di Caesar, chiamato a testimoniare alla Commissione Affari Esteri, a Washington, Luglio 2014. Fonte: CNN

Per quanto riguarda la veridicità delle fonti, se ne è occupato anche l’Osservatorio dei Diritti Umani che, oltre a darne conferma, sottolinea come queste testimonino segni di tortura, pestaggi, malnutrizione e malattie sui corpi delle vittime. Con questi documenti varie vittime sono state identificate, anche grazie alla mobilitazione di diverse associazioni internazionali, che, per evitare che i corpi rimangano solo dei numeri, hanno pubblicato online le foto delle teste dei detenuti.

Numerose famiglie cercano così negli scatti di Caesar i volti dei loro cari. Tuttavia non sempre il riconoscimento è facile, poiché le facce sono mutilate o plasmate dalla perdita di peso: i familiari guardano e riguardano quei volti ceninaia di volte per porre fine alla loro agonia e dare inizio ad un altro inferno, quello dove non vi è più speranza ma solo la certezza della scomparsa. Centinaia di corpi hanno ottenuto così un nome, come quello di Ayham, riconosciuto dalla madre Mariam Hallak. Era il suo figlio più giovane, di 25 anni, che stava svolgendo un master in odontoiatria. Riconoscimento tuttavia non significa sapere dove il corpo si trovi: Mariam, così come altri migliaia di familiari, si vede negata la possibilità di dare una tomba a suo figlio.

Alcune foto scattate da Caesar. Fonte: © 2015 Human Rights Watch

Anche i nomi dei responsabili sono spesso noti, ma nonostante le evidenze, il regime di Bashar al-Assad continua a negare. Il potere continua ad essere nelle sue mani, la tragedia continua nei modi più terribili e gli innocenti continuano a pagare per finire poi dimenticati. Gettati in una fossa comune, senza il loro nome, senza il ricordo della loro lotta per quell’irrefrenabile desiderio di libertà.

 

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L’Arte di “riciclare”: come le mafie fanno affari con l’arte http://www.360giornaleluiss.it/larte-di-riciclare-come-le-mafie-fanno-affari-con-larte/ Sat, 22 Oct 2016 07:02:15 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7286 E’ di poco tempo fa la notizia del ritrovamento nella provincia di Napoli di due Van Gogh trafugati dal Van Gogh museum di Amsterdam. Questo fatto di cronaca ha sollevato l’attenzione su un fenomeno di cronaca sul quale troppo poco si è detto e scritto: il traffico di opere d’arte gestito dalla criminalità organizzata.  

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E’ di poco tempo fa la notizia del ritrovamento nella provincia di Napoli di due Van Gogh trafugati dal Van Gogh museum di Amsterdam. Questo fatto di cronaca ha sollevato l’attenzione su un fenomeno di cronaca sul quale troppo poco si è detto e scritto: il traffico di opere d’arte gestito dalla criminalità organizzata.

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Archeomafie è un termine che viene coniato insieme a quello di ecomafie ed utilizzato per identificare organizzazioni criminali che, utilizzando il metodo mafioso, operano nel settore degli scavi clandestini, del furto, oltre che traffico internazionale di opere d’arte e reperti archeologici. L’attività delle archeomafie si compone di una serie di passaggi di cui il furto ne rappresenta quello primario e più evidente; attraverso il mercato clandestino le opere trafugate finiscono nelle mani di spregiudicati collezionisti creando un traffico che si colloca, oggi, al secondo posto come fonte di introiti per le organizzazioni criminali dopo il traffico di stupefacenti. Ovviamente qui stiamo parlando di un traffico che ha assunto connotazioni internazionali, e che quindi per forza di cose presuppone una rete criminale ben strutturata e in grado di far perdere le tracce circa la provenienza illecita delle opere, ma soprattutto di riuscire a reinserire le opere stesse nel circuito legale.

L’Italia è sicuramente un paese che da questo punto di vista ha molto da offrire ai trafficanti e cercatori di opere d’arte. Pensiamo ai cosiddetti tombaroli, i quali si collocano alla base di una piramide al vertice della quale troviamo i veri e propri trafficanti: i primi scovano i tesori nascosti, i secondi acquistano gli stessi dai cercatori per poi immettere le opere nel mercato illecito. A primo acchito la domanda che sorge spontanea è, perché ricorrere al mercato illegale per ottenere un oggetto difficile da esporre oltre che privo di certificazione di autenticità? Spesso, in realtà, il collezionista che si rivolge ai trafficanti di opere d’arte è un “colletto bianco”, con grandi disponibilità economiche e consapevole di commettere reato di riciclaggio, acquistando opere d’arte attraverso un canale illegale. Quei pezzi dovrebbero, infatti, essere esposti nei musei.

Il mercato dell’arte è spesso teatro di investimento e reinvestimento di capitali illeciti per la caratteristica delle stesse opere di mantenere inalterato il proprio valore ed essere semplici da sottrarre o occultare, è uno dei più sicuri. Come detto poc’anzi, spesso si tratta di vere e proprie organizzazioni che si dedicano al commercio di tali opere, utili soprattutto alla gestione di un mercato sempre più internazionale. Tra i maggiori acquirenti esteri troviamo paesi come gli USA o la Svizzera. Proprio quest’ultima sembrerebbe avere un ruolo nevralgico nel mercato illegale: spesso per ripulire o meglio riciclare un’opera trafugata in Italia, le stesse vengono fatte transitare dal territorio elvetico. In questo modo si cancella la provenienza illegale dell’opera, tale per cui viene “costruita” una certificazione di autenticità ad hoc che ne permetta l’acquisto presso aste o musei. La cosa che maggiormente sconvolge è che spesso musei di tutto il mondo abbiano acquistato tali opere con la consapevolezza della loro provenienza illegale.

Per arginare il fenomeno è stato istituito, nel 1969, un reparto speciale dell’Arma dei Carabinieri, con il nome di “Comando Carabinieri Ministero Pubblica Istruzione – Nucleo Tutela Patrimonio Artistico”che è specializzato nelle operazioni che hanno ad oggetto il patrimonio culturale italiano. Questi reparti, però, incontrano non poche difficoltà nell’adempimento dei doveri cui sono chiamati, difficoltà che si riscontrano in particolare modo nello svolgimento delle indagini: incorrono infatti nell’impossibilità di fare intercettazioni o agire sotto copertura. Ecco perché l’Arma in questi settori esplica la sua attività soprattutto mediante i continui monitoraggi dei siti archeologici oltre che e soprattutto del territorio, mediante l’uso di strumentazioni che permettano di scoprire eventuali siti o scavi abusivi. Nell’affrontare questi inconvenienti si sono portate avanti istanze legislative al fine di procedere all’utilizzo di intercettazioni telefoniche e ambientali, oltre che di istituire i cd. siti civetta, questo proprio perché la maggior parte delle operazioni volte a “ripulire” le opere d’arte illecitamente ottenute avviene sul web.

Nonostante questa pratica sia annoverata tra le maggiori fonti di introiti delle organizzazioni criminali, la legislazione in merito è ancora poco sviluppata, le pene sono lievi (consisenteti nella reclusione fino ad un massimo di tre anni e poche migliaia di euro di multa) e gli strumenti per la repressione piuttosto limitati. In ragione di ciò è stata introdotta l’iTPC, un’app che permette, mediante una connessione internet, l’accesso ad un banca dati nella quale sono stati repertati tutti i Beni culturali illecitamente sottratti, che viene istituita presso il Ministero dei Beni Culturali con allegate immagine delle opere ricercate.

L’Italia è tra i paesi maggiormente impegnati nella promozione di politiche di contrasto al fenomeno del traffico illecito di opere d’arte, ne è un esempio l’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi, al summit sul peacekeping all’ONU, in cui ha proposto la costituzione di una task force internazionale specializzata nella tutela del patrimonio culturale. Il tema della salvaguardia del patrimonio culturale ha attirato l’attenzione a livello internazionale soprattutto dopo le distruzioni di rilevanti siti ad opera di Daesh, cosa quest’ultima che fa sperare, sì, in una riforma a livello nazionale della legislazione in materia ma anche e soprattutto di una maggiore cooperazione a livello sovranazionale, in considerazione dei rapporti che organizzazioni criminali dedite a tali traffici intrattengono con l’estero. E’ solo attraverso la cooperazione internazionale che può essere debellato questo “morbo” che ha colpito il nostro inestimabile patrimonio artistico.

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I giardini di Sirte http://www.360giornaleluiss.it/i-giardini-di-sirte/ Fri, 07 Oct 2016 12:15:04 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7170 Mentre nell’ultima metà di Agosto ci preparavamo per l’uscita del nuovo numero di 360, un intervento militare riportava sotto il controllo del governo di Tripoli ciò che purtroppo resta della città di Sirte, devastata dai bombardamenti, dalla guerra che ancora si combatte oltre le mura per ricacciare non solo ciò che resta nella città dell’esercito

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Mentre nell’ultima metà di Agosto ci preparavamo per l’uscita del nuovo numero di 360, un intervento militare riportava sotto il controllo del governo di Tripoli ciò che purtroppo resta della città di Sirte, devastata dai bombardamenti, dalla guerra che ancora si combatte oltre le mura per ricacciare non solo ciò che resta nella città dell’esercito del Califfato, ma soprattutto gli orrori delle esecuzioni, della morte e della paura che con questo si trascinano.

Prima ancora di aver dato nel 42’ i natali a Gheddafi e di essere stata per due anni la capitale dell’ISIS in Libia, la città di Sirte con il suo golfo ha rappresentato, e tutt’ora rappresenta, sotto il profilo economico e strategico uno dei porti più importanti della regione e del mediterraneo.

Di Sirte vi abbiamo parlato nella nuova Inchiesta di Settembre, Made in Italy, dedicata ai rapporti e agli intrecci della Mafia Italiana con le realtà criminali internazionali.

Nell’articolo Fiducia Malriposta, la risposta a chi chiosava sulla possibilità di un concreto interesse della criminalità organizzata italiana nella protezione del nostro paese dagli attacchi dell’Isis, è stata data forte e chiara, evidenziando come le relazioni diplomatiche fra Mafia e terrorismo internazionale, nel caso di specie l’IS, non solo ci sono, ma poggiano saldamente su di una serie di accordi commerciali di primario spessore, facendo pendere l’ago dei rapporti sicuramente non a favore della sicurezza interna. Non deve stupire che il leitmotiv di queste società transfrontaliere sia sempre il pecunia non olet.

Uno degli accordi più interessanti è rappresentato dal commercio internazionale di hashish e marjuana: la rotta marittima negoziata dai broker di Cosa Nostra con i rappresentanti del Califfato fa arrivare, principalmente ma non solo, dal porto di Sirte alla Sicilia, ogni anno, centinaia di tonnellate di stupefacenti, rendendo di fatto le duecento miglia marine che separano le coste libiche da quelle italiane fra le più remunerative del mondo.

Nonostante la droga, come l’alcol, sia vietatissima dalla sharia, la severa legge religiosa islamica, la possibilità di entrare nel mercato italiano degli stupefacenti, un giro d’affari da 32 miliardi di euro all’anno, fa passare in secondo piano il rovescio spirituale della medaglia.

Nel 2013 un’informativa riservata avverte gli investigatori italiani che una nave cargo, proveniente dalle coste nord africane, trasporta merce di contrabbando. Segue una rotta peculiare, lontana centinaia di miglia marine dalla consueta via degli stupefacenti che dal Marocco oltrepassano le colonne d’Ercole per arrivare in Spagna, e da la in tutta Europa. È soprattutto per questo che, quando le fregate di pattuglia della Marina Militare Italiana intercettano la Adam nelle acque territoriali italiane (una portacontainer salpata dalla Libia e diretta in Sicilia), restano impietriti e stupefatti davanti ad un carico di 15 tonnellate di hashish, che cadoe ai piedi degli investigatori come un fulmine a ciel sereno; Non solo uno dei sequestri più imponenti, ma la pericolosa avvisaglia che le correnti del mercato stavano pericolosamente cambiando.

I numeri parlano chiaro: oltre 280 tonnellate di hashish sequestrate, per un valore che supera i 3,2 miliardi di euro, soltanto nei 32 mesi successivi alla cattura della Adam, rinvenute sulle prime 20 navi che i militari hanno intercettato nei nostri mari territoriali.

Numeri che hanno permesso alla task force composta Procura della Repubblica Italiana e la United States Drug Enforcement Administration, attraverso un meticoloso e martellante lavoro di intelligence, di ricostruire la nuova società mediterranea della droga, che vede come principali partner Cosa Nostra e l’Isis.

Dal 2007, quando Guardia di Finanza e Polizia Spagnola intercettavano potenti motoscafi con al massimo 100 chili di hashish oltre lo stretto di Gibilterra, i signori della droga hanno fatto evidentemente passi da gigante.

Secondo gli investigatori italiani, ruolo chiave nel Nord Africa è ovviamente svolto dall’Isis. Non solo la conquista dei territori siriani e libici, ma anche l’influenza che il Califfato esercita sulle popolazioni confinanti, ha canalizzato il potere, e di conseguenza il controllo del mercato, nella loro sfera di dominio. Coste libiche, cirenaica, le città di Derna, Bengazi e soprattutto Sirte (non ancora totalmente liberata) sono il loro centro nevralgico, attraverso il quale organizzando la propria politica illegale in due principali tronconi:

Il primo è la vendita attraverso il controllo delle rotte. L’asse Marocco-Spagna, come ricordato, si è spostato. Sotto la bandiera nera adesso lo stupefacente attraversa sempre lo stretto di Gibilterra ma le vie sono tre: arriva direttamente in Sicilia; si ferma in Libia per essere nuovamente ricaricato, sempre in direzione Sicilia, in gigantesche spedizioni su le navi Cargo; viene scortato in Egitto, e da li attraversa la Turchia, arricchendo il carico anche di oppio ed eroina afgana, destinandolo ai grandi grossisti dei Balcani. In questo caso il Califfato negozia direttamente con le famiglie siciliane, con una media di 10mila dollari per ogni chilo di hashish venduto, il cui prezzo retail sale fino a 12mila una volta smerciata nelle piazze d’Europa. Se il carico della prima nave, la Adam, era stimato in 150 milioni di euro, il sequestro della Aberdeen, un altro colosso dei mari, nel giugno 2014, ha tolto una posta al bilancio criminale di oltre 420 milioni.

Il secondo è la tassazione. Il Califfato, nelle operazioni che non gestisce direttamente, riesce ad escutere una percentuale sul valore di ogni carico di cui consente il passaggio nei propri territori. Un dazio doganale, che insiste soprattutto in Siria ed Iraq, il cui peso stimato dal IHS Country Risk (una società di analisi economiche e finanziarie leader mondiale) sarebbe del 7% dell’afflusso monetario totale dell’ISIS.

Il controllo così radicato, e la capillarità logistica con cui lo Stato Islamico sembra essersi organizzato, fanno dubitare che la conquista di una città come Sirte (ancorché, nel momento in cui si scrive, non totalmente liberata), uno dei simboli del potere del Califfato e per questo grande sconfitta militare, abbia in realtà concretamente minato le sue possibilità economiche e commerciali.

La criminalità organizzata italiana dal canto suo, interessata ad un accettabile margine di sicurezza nella consegna dei carichi e alla solvibilità del partner piuttosto che alla sua fibra morale, adotta uno schema tradizionale, non nuovo agli esperti di settore.

Gioca il suo ruolo fondamentale nel controllo degli oltre 8mila chilometri di coste del nostro Paese, il più grande varco di accesso della droga in tutta Europa.

Secondo la Relazione annuale al Parlamento su Droga e Dipendenze in Italia del 2015, (l’ultima cronologicamente disponibile sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri n.d.r.), figlia del Testo unico sugli stupefacenti del 2009 e redatta dai Ministeri dell’Interno, Difesa e Giustizia, circa il 95% di tutte sostanze stupefacenti sequestrate provengono dal traffico marittimo, circa l’81% dei sequestri di droga vengono fatti in Sicilia, e sempre dal quest’isola proviene l’86% di tutto l’hashish sequestrato in Italia.

Si particolareggia così la fondamentale importanza strategica delle rotte marittime, per altro in un continuo gioco di guardie e ladri fra le forze militari nazionali, che si barcamenano fra la crisi dei migranti, il controllo delle coste e la lotta al contrabbando, e le famiglie siciliane, per le redini di un’Italia che, giocoforza, rappresenta il baricentro perfetto del traffico stupefacente internazionale.

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Ultras a chi? http://www.360giornaleluiss.it/ultras-a-chi/ Thu, 17 Mar 2016 09:58:42 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=6114 Una cosa dovrebbe essere chiara ancor prima di cominciare: le curve, intese come gli spazi degli stadi di calcio adibiti al tifo più passionale, non sono composte solo ed esclusivamente da ultras. L’equazione ultras=curva non è vera. Chiarito questo concetto molto spesso equivoco, possiamo iniziare a parlare di quelle che la stampa generalista ha da

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Una cosa dovrebbe essere chiara ancor prima di cominciare: le curve, intese come gli spazi degli stadi di calcio adibiti al tifo più passionale, non sono composte solo ed esclusivamente da ultras. L’equazione ultras=curva non è vera.
Chiarito questo concetto molto spesso equivoco, possiamo iniziare a parlare di quelle che la stampa generalista ha da sempre definito “infiltrazioni mafiose negli stadi”.

Il calcio è lo sport più popolare al mondo, su questo dovremmo essere tutti d’accordo. Uno dei motivi, se escludiamo le preferenze personali, può essere riscontrato nel substrato sociale di provenienza. Giocare a pallone è economico, democratico e alla portata più o meno di tutti. Non è sorprendente allora di come la passione per il calcio si sia nel tempo andata radicalizzandosi (anche) in quei settori della società civile meno ricchi. L’enorme diffusione del gioco, la rilevanza geo-politica che spesso ha assunto (basti pensare ai Mondiali giocati in Argentina durante la dittatura dei colonnelli) hanno creato un rapporto viscerale tra tifosi di una squadra e la stessa. È una cosa che trascende i risultati sportivi, uno spirito campanilista (non per forza associato alla propria città , ma quasi) che provoca a chi lo pratica l’adrenalina del difensore di un ideale. Una cosa fortissima.

È questo l’archetipo dell’ultras, che può declinarsi in diverse sfaccettature che, ai fini del nostro discorso, non sono poi così rilevanti. Gli ultras vanno tutte le domeniche allo stadio, in casa e in trasferta (questo prima del capitolo tessera del tifoso) cantano per tutti i 90 minuti, difficilmente contestano la squadra e completano il loro sentimento con un qualcosa di molto vicino al cameratismo – che non è per forza una brutta parola, s’intende. Gli ultras poi hanno anche atteggiamenti da fuorilegge (una parola che suona molto meglio se letta nella sua versione anglofona “outlaw”). Inutile negarlo, nella cultura ultras (che significa “andare oltre” appunto) ci sono ben radicati i concetti di scontro, rissa fumogeni. Tutte cose che operano al confine, spesso al di l di quello che il codice civile permette. E questo è un fatto.

Far parte di una organizzazione mafiosa (il termine, per mancanza di spazio verrà utilizzato da adesso in poi per intendere qualsiasi tipo di organizzazione criminale), però, sembra essere un’altra cosa. Nonostante i punti i punti cardine delle due “culture” siano simili – cameratismo, protezione l’un l’altro, senso di famiglia, etc – c’è una sostanziale differenza: l’ultras nasce, cresce e muore all’interno di uno stadio di calcio (o nelle immediate vicinanze), tutti i suoi atti che abbiamo definito fuorilegge sono compiuti in relazione al calcio e, soprattutto, non coinvolgono nessun altro che non sia un ultras. Esempio: è possibile che un ultras in trasferta incontri un ultras rivale, e che facciano a cazzotti (nell’ideale ultras non sarebbero ammesse armi). Non è possibile che un ultras prenda un “normale tifoso” di un’altra squadra e lo riempia di botte. Quello lo fa un mafioso.
Nessuno è però così ingenuo da credere che non esistano delle eccezioni e delle degenerazioni a questa regola. Come nelle religione (esempio casuale fino ad un certo punto) c’è chi interpreta male i dogmi. È un problema, ma difficilmente risolvibile.
Ritornando a quanto stavamo dicendo: un mafioso invece… beh, sappiamo come opera un mafioso. Ma questi mafiosi possono essere degli ultras? Sì, verrebbe da dire quasi certo. Il caso mediatico degli ultimi tempi è stato quello di Genny A’Carogn’, a capo di uno dei gruppi storici della curva napoletana e, malauguratamente per lui, in rapporti con il crimine organizzato. Questo rende la curva napoletana vittima di infiltrazioni mafiose? Non per forza e, nel caso citato, no. Se un mafioso entra in un gruppo ultras accetta di rispettare delle regole, che, in termini spicci, gli impediscono di esercitare il suo “potere mafioso” nelle faccende da stadio. Non è l’infiltrazione mafiosa che ha fermato quella maldetta partita, non sono i mafiosi in curva a decidere i comportamenti della frangia ultras. Si tratta di convivenza e di sopravvivenza, è diverso.
Qui ci ritorna utile la nostra premessa per capire come le famigerate infiltrazioni esistano. Possiamo definire, senza timore di risultare classisti, la curva un settore popolare. I prezzi dei biglietti sono più bassi, e permettono a tutti di assistere alla partita. La conoscete la storiella del figlio dell’avvocato e dell’operaio, no? Ecco, vale anche e soprattutto per la curva. Ma con il figlio dell’operaio e del disoccupato c’è anche il figlio del mafioso che, pur potendosi permettere altri tipi di ticket, sceglie la curva per una sorta di desiderio di legittimazione. Ma il figlio del mafioso che viene “accolto” in curva non è un ultras. Capito questo, abbiamo capito tutto. E possiamo lasciare le autorità competenti svolgere il loro mestiere. Ci sono i mafiosi che vanno in curva, in curva ci sono anche gli ultras, che non sono normali tifosi. Qualche ultras può far parte di associazioni mafiose, ma quando supera quei tornelli mi mette il mantello dell’ultras. Quando i mafiosi non in curva non decidono le sorti di una squadra o di una tifoseria. Quando lo fanno il sistema ultras va in crisi, e si scioglie, come successo qualche anno fa alla Fossa Dei Leoni, gambizzata da esponenti del crimine organizzato. Potrebbe essere riassunto tutto qui.

Non fa bene l’accanimento mediatico, mai. A volte è semplice, quasi necessario. Come nei casi di strozzinaggio di alcuni gruppi del tifo laziale nei confronti della società, o quando nella curva del Palermo spuntò uno striscione dedicato ad un boss mafioso appena uscito di prigione. In questi casi la cultura ultras perde, e credo ammetta la sconfitta. Ma le eccezioni non sono regole, per definizione. Potremmo obiettare con: perché gli ultras non difendono il loro territorio, la loro casa, dagli “attacchi” della mafia? Marzullianamente potremmo risponderci: perché Falcone e Borsellino non hanno visto nascere i loro nipoti.
È un po’ il gioco del cane che si rincorre la coda. Gli ultras non sono nient’altro che un’altra delle categorie che compone la nostra società e dobbiamo tutti riconoscere con fermezza che non si può chiedere ad una sola categoria di combattere i demoni di tutti. Non si chiede ai commercianti di combattere da soli il racket. Non si chiede agli imprenditori di combattere da soli gli appalti truccati. Non si fa perché è sbagliato, suicida, e perché non è il fondamento di una democrazia.

Non chiediamo agli di farsi giustizia da soli, e non lo confondiamo con dei criminali. Un fuorilegge non deve essere per forza un criminale. Magari non è giusto essere l’uno quanto non è giusto l’essere l’altro. In questo modo si penalizza chi, pur non riconoscendosi in una cultura ultras, si reca allo stadio in curva perché crede sia il modo più giusto di supportare i suoi colori. Non deve essere neanche colpa loro.

È colpa nostra, come sempre quando qualcosa non va come deve andare. Il calcio è una parte importante della nostra società, e la soluzione è integrarlo, non isolarlo. È colpa nostra e dovremmo fare qualcosa a riguardo senz’altro. Purtroppo, parafrasando in un certo senso Pasolini, ancora non so cosa.

FRANCESCO ABAZIA

ORLANDO PISCOPO

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CALCIO A TRE: GIOCATORI, IMPRENDITORI E MAFIOSI SUL CAMPO DI PALLONE http://www.360giornaleluiss.it/calcio-a-tre-giocatori-imprenditori-e-mafiosi-sul-campo-di-pallone/ Wed, 09 Mar 2016 16:01:11 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5978 Erano oltre duemila le persone che assistevano alle partite dell’Albanova in C2. La fede calcistica sa adorare anche i piccoli dei, Mercurio come Giove. Meno sentimentalismi, però, portavano la cosca di Francesco Schiavone a riunirsi nella sede del club cittadino. Pur non avendo la formale proprietà o incarichi dirigenziali, la squadra casalese vantava come dominus

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Erano oltre duemila le persone che assistevano alle partite dell’Albanova in C2. La fede calcistica sa adorare anche i piccoli dei, Mercurio come Giove. Meno sentimentalismi, però, portavano la cosca di Francesco Schiavone a riunirsi nella sede del club cittadino. Pur non avendo la formale proprietà o incarichi dirigenziali, la squadra casalese vantava come dominus Walter Schiavone e sapeva farsi efficace strumento di profitto per coinvolgere imprenditori e politici, dal proprietario dello zuccherificio più grande del meridione, Dante Passarelli, al politico del Pd Mario Natale. Perché tra gli spalti si consolidano alleanze, anche quelle criminali. Non capivano, gli appassionati tifosi, che certi destini camminano insieme. Così, all’arresto del suo padre naturale, anche l’Albanova conclude la sua scalata di categoria. Sono morti premature, per omicidi o arresti, a cui i boss parametrano i loro piani.”Operano con il respiro corto, con l’idea della trimestrale di cassa, vogliono ottenere il massimo il prima possibile, disinteressandosi del futuro, così imponendo questo segno anche al destino di squadre”, chiosa Raffaele Cantone. L’affaire calcio è la riproduzione in campo del modo di agire delle mafie, occasione di costruzione del consenso e di produzione del denaro. Una miniatura rappresentativa delle intelligenze sociali prima ancora che economiche. Perché non sono le faide a fondare il potere mafioso, sono le paci. È un occhio attento quello dei boss. Sa curare i piccoli feudi, culla di grandi fedeltà. Si spiega così l’ingerenza nella gestione delle squadre di paese. Sono movimenti già sperimentati nei rapporti commerciali: un finanziamento per pagare i debiti del negozio in cambio di favori. Una macchina per commettere un omicidio, una carta di identità per recuperare una partita di droga. Nel calcio di provincia questa beneficienza si chiama scuola-calcio. La carriera di un figlio vale ben un vincolo, cui le famiglie si impegnano per assicurargli l’ingresso in campo. Piccoli debitori crescono fino a diventare quei “giocatori invisibili” di cui parla il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, ex reggente di una cosca di Crotone. “Esistono dei calciatori invisibili la cui carriera è programmata e accompagnata da organizzazioni criminali. Il loro compito è quello di pilotare i risultati sportivi e i comportamenti dello spogliatoio”. I grandi, invece, di raccomandazioni non hanno bisogno. Certo la vicinanza non fa del vicino l’avvicinato. Penalmente neutri sono i rapporti di Lavezzi con membri della famiglia Lo Russo o le vasche da bagno che ospitano Maradona e l’allora latitante Carmine Giuliano. Meno ambiguo è stato il fuoriclasse brasiliano dell’Avellino Juary, che, su invito del presidente Sibilia, consegnò una medaglia d’oro a Cutolo, rinchiuso in una gabbia del tribunale napoletano. Ma non di solo consenso vive l’uomo. Il calcioscommesse figura come posta nel bilancio per la criminalità di ogni denominazione. Il pentito Guglielmo Giuliano del clan di Forcella ricorda un ex calciatore del Napoli come colui che “quando giocava nel Catanzaro combinava il risultato sul campo, così noi sapevamo con anticipo quale sarebbe stato l’esito finale della partita”. L’idillio si concluse con la perdita di una partita con il Genoa di cui si era garantito il pareggio. “Poiché avevamo avvisato anche le altre famiglie dell’esito combinato della partita, il risultato causò una perdita secca nostra e degli altri clan. Il calciatore doveva essere ammazzato, e riuscì a salvarsi solo grazie al rapporto che aveva con Giovanni Paesano di Posillipo“. Proprietà di agenzie di sommesse, ma anche milioni in gioco e complicità dei giocatori. Sono combinazioni di facile replicabilità, ma non di esclusiva proprietà. Nel maggio 2015, l’operazione “Dirty Soccer” ha portato all’arresto di15 calciatori, 6 presidenti di società sportive, 8 dirigenti sportivi, allenatori, direttori generali, 10 “finanziatori”. Un ‘ndranghetista, Pietro Iannazzo, senza ‘ndrangheta. La mafiosità è una modalità di azione, non una categoria soggettiva. Scrive il giudice per le indagini preliminari che “Iannazzo non agisce da soggetto esterno alle dinamiche sportive, bensì quale consulente di mercato e preposto alla gestione tecnica della società calcistica Neapolis e, dunque, ricoprendo un preciso ruolo nel mondo calcistico”. C’è un calcio malato anche quando il termometro non segna 416 bis.

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PADRI-PADRINI NELLA LARGA PORTA DELLA MISERICORDIA: CONVERSAZIONE CON ANTONIO NICASO http://www.360giornaleluiss.it/conversazione-con-antonio-nicaso/ Sun, 11 Oct 2015 14:44:54 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=4579 La Betlemme mafiosa si chiama Favignana. È qui che Osso, Mastrosso e Carcagnosso, votandosi a San Giorgio, alla Madonna e a San Michele Arcangelo, diedero vita alle mafie geograficamente differenziate. Con un tale sostegno, sembra difficile smantellare quell’apparato sacrale che attira i nuovi affiliati e preserva la fedeltà dei vecchi. Si considerano i custodi di

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La Betlemme mafiosa si chiama Favignana. È qui che Osso, Mastrosso e Carcagnosso, votandosi a San Giorgio, alla Madonna e a San Michele Arcangelo, diedero vita alle mafie geograficamente differenziate. Con un tale sostegno, sembra difficile smantellare quell’apparato sacrale che attira i nuovi affiliati e preserva la fedeltà dei vecchi. Si considerano i custodi di valori ancestrali e tradire l’onorata società è un peccato da punire con la morte.

I mafiosi non sono cattolici. Hanno sempre strumentalizzato il Cattolicesimo. Si sono creati un Dio a loro immagine e somiglianza. È un Dio tollerante, accomodante. I miti e i riti che più di ogni altra cosa contribuiscono a creare un’identità, ma soprattutto un senso di appartenenza, sono stati mutuati da ambienti familiari ai mafiosi, come quello della Chiesa, in un tempo in cui gli analfabeti parlavano con le parole del prete e con i proverbi e agli adagi della tradizione e della saggezza contadina. Per molto tempo, la Chiesa ha fatto finta di non vedere e di non sentire. Ha così consentito ai mafiosi di utilizzare per fini funzionali a logiche di potere processioni, riti e associazioni pubbliche di fedeli, come le confraternite.

Questo rapporto si scinde in due componenti, una interna ed intimistica, che si estrinseca nel rapporto con Dio, da cui l’uomo, prima che il mafioso, sembra voler trovare approvazione, l’altra esterna, consistente nella frequentazione dei prelati e nella partecipazione alle feste religiose, per conquistare il consenso della società. C’è qualcosa di spaventosamente umano in questa ricerca di assoluzione, in questa sceneggiata delle virtù, che legittima il più grande ostacolo nella lotta alla mafia: “è una persona perbene “.

La mafia per esistere ha bisogna di riconoscimento sociale. È una società segreta di cui tutti devono conoscerne l’esistenza. Le associazioni mafiose, come cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra, non sono mai state veramente dalla parte dei deboli contro i forti o dalla parte dei poveri contro i ricchi. Come sosteneva Pasquale Villari sono il prodotto della modernità, da sempre funzionali alle classi dirigenti. Per i mafiosi, il prete è un ottimo biglietto da visita, la riconoscenza della Chiesa locale serve a legittimare il prestigio sociale di un boss che ha sempre visto nelle processioni, nelle raccolte di fondi a favore di Chiese e ordini religiosi, un modo per entrare in contatto con la gente importante, quella che in un paese gode di maggiore prestigio.

“Solo Dio è il vero giudice” scrivono sui muri delle celle. Il pentimento che si manifesta solo nel confessionale, ma che non si traduce in un aiuto alla magistratura è stato avallato da un atteggiamento di comprensione dei sacerdoti. Eppure mi sembra una distorsione eccessiva della parabola della pecorella smarrita salvare le anime di un Aglieri o un Provenzano senza voler convertire al messaggio evangelico gli uomini Aglieri e Provenzano.

È uno stratagemma da sempre utilizzato dai mafiosi che sostengono di non avere alcuna fiducia nella giustizia terrena, preferendo ad essa quella divina. Sono pertanto propensi a pentirsi davanti a Dio, ma non davanti agli uomini. Ci sono stati sacerdoti, vescovi che hanno avallato questo modo di interpretare la giustizia. Ci sono invece altri uomini di Chiesa, secondo i quali la conversione non può essere ridotta a fatto intimistico, ma ha sempre una proiezione storica ed esige comunque la riparazione. Bisognerebbe avere il coraggio di dire: voi mafiosi non avrete l’assoluzione se non vi riconcilierete con lo Stato, la collettività.

L’ex vescovo di Locri, monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, attuale arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, ha incitato i fedeli a disinteressarsi di “incontri e patti legali” che possono avvenire nel santuario di Polsi. “Sono cose che non ci riguardano, a noi interessa contemplare il volto materno di Maria”. Possibile che nel volto materno di Maria ci siano aborto, matrimoni omosessuali, fecondazione assistita, ma non sopraffazione e violenza? Possibile, anzi, accettabile, che in prima linea sfilino nelle processioni religiose gli stessi uomini che dicono di poter togliere la vita a loro piacimento come Dio?

La Chiesa in Calabria negli ultimi tempi ha imboccato una strada diversa. Ha cominciato a fare chiarezza sulle modalità organizzative delle processioni e di altri riti religiosi. C’è ancora tanto da fare, ma non penso che i cattolici debbano limitarsi a contemplare il volto materno di Maria.

Che la Chiesa sia una “spina nel fianco” per i mafiosi, chiede monsignor Ravasi. Le trascrizioni dilazionate di matrimoni di latitanti, il nome di camorristi benefattori sui banchi delle chiese, il riciclaggio di denaro ad opera di Cosa Nostra tramite lo Ior, il pizzo travestito da offerta per far fermare la candelora durante la festa di Sant’Agata, la nomina di Giulio Lampada del clan Condello a cavaliere dell’ordine vaticano dei cavalieri di San Silvestro Papa: basta a dimenticare e contrastare tutto questo il “convertitevi” del Papa?

 No. Certamente no. L’appello alla conversione non basta. Così come non basta la scomunica di Papa Francesco. Bisognerebbe verificare l’applicabilità della scomunica nelle varie diocesi, capire chi ha imboccato la strada indicata dal Pontefice e chi ancora no. Il rischio è che in Chiesa, proprio per la sua grandezza, ognuno continui a starci dentro a modo proprio. Come temeva Leonardo Sciascia.

Articolo apparso su “360° – Il giornale con l’Università intorno”, n.01, settembre 2015, anno XIV.

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